Non si è fatta attendere la reazione, quantomeno virtuale, dei gregari del sodalizio camorristico che ieri pomeriggio ha registrato il ferimento di due uomini, raggiunti in strada da una dozzina di colpi d’arma da fuoco, a Ponticelli.
Un agguato avvenuto tra le carcasse dei palazzoni riconducibili a quella fetta di quartiere denominata “Lotto 10” che identifica nel degrado e nello spaccio di droga i suoi principali tratti distintivi.
A finire nel mirino dei killer, il 40enne pregiudicato Luigi De Micco, fratello del celeberrimo Marco, detto “Bodo”, stimato essere l’attuale reggente del clan, in seguito alla carcerazione dei fratelli Marco e Salvatore. Oltre a De Micco, raggiunto da un proiettile al fianco che gli ha incrinato una costola, anche Antonio Autore, classe 1994, è stato ferito alla schiena e per questo è tuttora ricoverato all’ospedale Cardarelli.
Proprio amici e parenti del giovane, scrivono sui social messaggi inequivocabili: “uomini che p… si nasce, non si diventa. Più forti di prima”.
Il nome trascritto in arabo, quasi a voler emulare i guerriglieri dell’Isis, il giovane è soprattutto uno dei più grandi spalleggiatori di una “pericolosa” moda che dilaga tra i figli di detenuti in carcere per associazione a delinquere: iscriversi sui social con il nome del genitore recluso.
Un escamotage dal forte impatto emotivo, efficace a tenerne vivo il ricordo oltre che “la rispettabilità”.
Il nome di Antonio Autore, infatti, è associato a quello di Ferdinando Autore, detto “’o russ’”, esponente di spicco del clan Mazzarella-Sarno. Il suo nome era incluso tra quello dei 42 arrestati il 18 luglio 2006 dal Gruppo Carabinieri di Castello di Cisterna. Le accuse per tutti i destinatari del provvedimento variavano dall’associazione per delinquere di tipo mafioso finalizzata alla commissione di omicidi, estorsioni, violazione legge armi, usura, traffico di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti e altro.
Nel marzo 2009, Ferdinando Autore, classe 1967, viene condannato alla pena di anni 20 di reclusione.
Una figura criminale d’indiscutibile rilievo e che nel 2005, fu persino capace di decretare l’annullamento della festa patronale di Marigliano, perché il pizzo imposto dalla camorra per la circostanza, non aveva sortito i 20mila euro da destinare “alle famiglie dei carcerati”.
Nel suo esempio e nel suo ricordo, le nuove leve della famiglia Autore muovono i primi passi decisivi nell’ambito della scena criminale vesuviana.
E non è tutto.
C’è addirittura chi, poco dopo l’agguato, ha voluto “festeggiare” la sacralità del momento tatuandosi sul corpo un segno indelebile: un proiettile, uno solo, adagiato ai piedi di una frase forte, in perfetto stile “camorra 2.0”: “Non abbatterti… Abbattili.”
Il clan De Micco conferma così il ruolo egemone ricoperto dai tatuaggi nel linguaggio dell’organizzazione per rilanciare il sentimento di affiliazione e, al contempo, rimarcare i messaggi che sponsorizzano la camorra e la rendono “fascinosa”. Una camorra che mostra un volto sempre più in linea con il nuovo modo di “fare comunicazione” e che ha imparato a parlare per frasi fatte e ad effetto, quelle che sanno scaturire avversione o ammirazione, repulsione o aggregazione.
O bianco o nero, perché il modus operandi della camorra non contempla le sfumature.
Un agguato da scalfire sulla pelle, per ricordare che il pericolo si cela sempre dietro l’angolo, per mano di un nemico pronto a colpire alle spalle, in un crescendo di angherie e prevaricazioni dove il più forte è quello che scampa alla morte.
Un tattoo che rimarca “l’orgoglio” che scaturisce dalle ferite maturate sul “fronte di guerra” e che sottolinea la dilagante esaltazione che serpeggia soprattutto tra le nuove leve dei clan.
Infine, il monito alla vendetta, a non sottrarsi al principio del “sangue chiama sangue”, intramontabile forza motrice delle dinamiche criminali.