“Se vogliamo farla, non voglio registratori né videocamere. Solo carta e penna. E’ da un anno che ci penso e poi mi tiro indietro. Non ho paura per me, tra qualche giorno me ne vado via e qui non ci metto più piede, ma ho un padre in galera e una famiglia sparpagliata per la Campania e non mi posso permettere di fare l’”eroe” o l’”infame”, come dicono i camorristi, firmando un verbale davanti alle guardie. Sto rischiando troppo, ma prima di andare via per sempre da Ponticelli voglio raccontare la verità, qualcuno la deve dire. Si deve sapere. Devo togliermi questo peso dalla coscienza. Lo devo a Mario Volpicelli: una persona onesta e perbene.”
Inizia così quello che può essere considerato un vero e proprio confessionale che porta la firma di una vita, già segnata dal male che solo la camorra sa infliggere nei destini di chi decide di condannare a morte, pur non eliminandoli fisicamente. Già, perché la camorra può uccidere in tanti modi, anche senza sparare.
A parlare, con i pugni stretti e gli occhi pieni di rabbia e paura che, a tratti, faticano a trattenere le lacrime, è un giovane cresciuto tra le figure di spicco della malavita ponticellese e che ha servito la camorra fin dai primi vagiti. Uno dei tanti figli di un padre camorrista e ben presto arrestato e condannato a scontare il resto dei suoi giorni in carcere. Eppure, la consapevolezza di non poter abbracciare mai più un genitore troppe volte non basta a redimere chi cresce nel segno della camorra e, così, ben presto anche lui si è ritrovato dietro le sbarre. Prima il carcere minorile, poi quello “dei grandi”, con le sue spietate regole e che sa essere ben più duro della vita di strada per chi nasce con il destino segnato e non sa opporsi alla “chiamata alle armi”. Era in carcere quando, a gennaio del 2016, ha appreso dell’agguato costato la vita a Mario Volpicelli, marito di una donna il cui cognome è Sarno, il clan che per circa un trentennio ha tenuto sotto scacco mezza Napoli.
Eppure Mario Volpicelli, 53 anni, professione commesso nel negozio “Tutto 50 centesimi” di Via Bartolo Longo, eccetto quei piccoli precedenti legati a un passato che si era lasciato alle spalle, non è mai stato invischiato in vicende camorristiche. Nelle terre di camorra non basta per guadagnarsi l’immunità: questo ci hanno insegnato i due proiettili che lo hanno raggiunto alla testa, in via Curzio Malaparte, intorno alle 20 di un freddo sabato sera di gennaio, mentre rincasava al termine di una giornata lavorativa qualunque, con le buste della spesa tra le mani. Giustiziato come un boss, lui che un boss non lo era affatto.
Un delitto che fin da subito gli inquirenti tendono ad incastonare negli omicidi seriali che in quel periodo venivano messi a segno contro i parenti degli ex affiliati al clan Sarno divenuti collaboratori di giustizia. Un’escalation di violenza denominata “la vendetta contro i parenti dei pentiti dei Sarno”, scaturita in seguito alle condanne definitive per la strage del Bar Sayonara, alle quali hanno contribuito in maniera determinante le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Raffaele Cirella e Ciro Sarno, fratello della moglie di Mario.
“Se fosse questo il movente dell’omicidio – spiega il giovane – avrebbero ucciso la moglie. Così com’è successo con l’omicidio di Giovanni Sarno e l’incendio alla porta della casa della mamma di Raffaele Cirella. Nelle vene di Mario non scorreva il sangue dei Sarno, ma quello dei Volpicelli. Per questo è stato ucciso: per mandare un segnale preciso al nipote in carcere.”
Il nipote di Mario al quale il giovane allude è Gennaro Volpicelli, detto “Gennarino”, stimato essere uno dei killer di maggiore spessore del commando di fuoco dei De Micco, il clan attualmente egemone tra le mura del quartiere Ponticelli. Arrestato all’età di 26 anni, accusato dell’omicidio di Massimo Imbimbo, ucciso nel dicembre del 2011 in via Alfieri, “Gennarino” è in regime detentivo già da diversi anni e sul suo capo pende un’altra pesante accusa di duplice omicidio: quella dei giovani Gennaro Castaldi ed Antonio Minichini, giustiziati nel rione Conocal, in via Arturo Toscanini, nei pressi dell’abitazione di Castaldi, unico e reale obiettivo dell’agguato.
“Gennarino sa che rischia di passare tutta la vita in carcere e chi ha vissuto quest’esperienza sa che non è un’idea che può renderti felice. Nessuno può accettare di passare il resto dei suoi giorni rinchiuso in una cella. Quando perdi la libertà sei morto comunque. Quando stai in galera te lo chiedi di continuo se vale la pena di fare quella fine per servire il sistema. Credo che la scelta di collaborare con la giustizia, molte volte, sia dettata proprio dalla necessità di sfuggire da quell’inferno e, parliamoci chiaro, “buttarti tra le braccia dello Stato” – diventare collaboratore di giustizia e beneficiare della protezione dello Stato – è un’alternativa che ti permette di rifarti una vita. Se la camorra non può più darti nulla, anche se tu gli hai dato già tutto, l’istinto di sopravvivenza ti porta a cercare altre strade. Poi vai a capire se il pentimento è reale. Lo metti in conto che puoi morire, da pentito, da camorrista no: quando sei parte di un clan, ti senti invincibile e pensi che basta avere “il ferro” – la pistola – addosso per riuscire sempre a cavartela in tutte le situazioni. Se vedi “un mezzo” – uno scooter – che arriva e ti spara, tu prendi la pistola e gli spari pure tu. E pensi che vicino a te c’è sempre qualcuno dei tuoi che può fare lo stesso. ”I Bodo” sono fortunati, vedi com’è andata a finire esattamente un anno fa, quando hanno sparato 15 botte –proiettili – contro Luigi De Micco e Antonio Autore. Si può dire che non gli hanno fatto nemmeno un graffio. A parti invertite, con 15 botte, “i Bodo” facevano una strage: i De Micco sono dei cecchini infallibili. Sono “l’Isis della camorra”, senza scherzare. Ai ragazzi che entrano nel sistema gli fanno il lavaggio del cervello e ai killer li addestrano per diventare sempre più lucidi e precisi. Hanno armi e uomini a volontà e li addestrano veramente come soldati. “Il Bodo” – Marco De Micco, fondatore dell’omonimo clan – non è come questi guagliuncielli che hanno la m….a in testa, il cervello lo tiene e lo sa usare. E’ sempre stato così, già da quando era ragazzo. I De Micco studiano piani mirati e non fanno stupidaggini solo per far vedere che il loro clan è il più forte. Dietro ogni azione ed esecuzione che porta la firma dei De Micco ci sono una motivazione e un disegno ben precisi, studiati, progettati nei minimi dettagli. Niente è lasciato al caso, niente è improvvisato.
I De Micco, da quando hanno ucciso “la passillona” – Annunziata D’Amico, reggente dell’omonimo clan, dopo l’arresto dei fratelli – hanno mandato un messaggio chiaro a tutti: “chiunque prova a contrastare la nostra forza e ad opporsi alle nostre imposizioni, fa una brutta fine”.
Quali elementi possono provare che Mario Volpicelli è stato ucciso per impedire a suo nipote Gennaro di diventare collaboratore di giustizia?
“Il modo in cui è stato ucciso, prima di tutto. E’ un’esecuzione in piena regola e nel codice camorristico ha un significato ben preciso: si spara alla testa per uccidere un boss o un parente diretto di un boss per intimidirlo. Gennarino non era un boss, ma stava assai addentrato nel clan. Sa parecchie cose, questo è sicuro. Era uno degli uomini dei quali i De Micco si fidavano di più e aveva un carattere forte, non aveva paura di farsi valere, diciamo così. E poi sa sparare bene.
Inoltre, non è un segreto che Gennarino aveva manifestato la volontà di collaborare: è un errore degli avvocati o di chi dovrebbe tutelare i pentiti permettere che queste notizie arrivino fuori. O questo ci fa capire quanto è grande il potere di un clan che può arrivare a controllare anche cose che non possiamo neanche lontanamente immaginare. In quel periodo, quando iniziò la vendetta contro i pentiti dei Sarno, però, quasi tutti quelli che stavano dentro al sistema – i personaggi affini alla malavita – sapevano che Gennarino si voleva pentire, forse proprio spinto dalla paura di quegli omicidi che temeva potessero mettere in pericolo la sua famiglia.
In quel clima, sapevano che le indagini avrebbero preso un’altra strada e che difficilmente potevano arrivare a questa verità. Gennarino, invece, avrebbe capito, eccome.
Hanno ucciso il più buono e il più esposto: perché a Mario lo conoscevano tutti e si sapeva che era una brava persona. Più che brava. Mario aiutava sempre chi era in difficoltà, seppure non navigava nell’oro e aveva una parola buona per tutti. Hanno colpito per fare più male e hanno fatto male assai, perché la morte di Mario è stata una brutta mazzata. Colpire una persona che sta nel settore del commercio e che per di più gode della stima e del rispetto della brava gente è anche un modo in più per far capire che non ti fermi davanti a niente e non guardi in faccia a nessuno. Buono o cattivo, camorrista o persona onesta, se la camorra ha deciso che sei la pedina che deve andare a terra per raggiungere il loro scopo, sei un uomo morto.
Quando sono uscito dal carcere, per un periodo, ho bazzicato tra i giovani del clan De Micco. Stavo pensando di rientrare nel sistema e non mi vergogno ad ammetterlo: la galera ti lascia addosso un marchio a fuoco che ti accompagna per tutta la vita e ti condiziona sotto ogni aspetto. Non trovi lavoro, una brava ragazza non accetta nemmeno la tua richiesta d’amicizia su facebook. Allora pensavo di non avere alternative e che l’unico modo che avevo per tirare a campare era entrare nel giro delle piazze di spaccio che poi, oggigiorno, con tutta la concorrenza che ci sta, si guadagnano gli stessi soldi di un operaio o di un muratore, sporcandoti le mani in maniera diversa, però.
Ero combattuto, ho domandato un po’ in giro, ho parlato un po’ con alcuni ragazzi che gestivano delle piazze per conto dei De Micco e ora non mi ricordo come, si misero a parlare di una serie di agguati avvenuti a Ponticelli di recente e anche quello di Mario. Ridevano, mimavano il gesto delle due botte sparate in testa, si esaltavano. Non gli ho voluto nemmeno chiedere se erano stati loro a sparare, non lo credo, ma per fare la parte dei tipi buoni – per vantarsi – mi avrebbero sicuramente risposto di si. E poi dissero una frase che non dimenticherò mai: “Al nipote gli è passata la voglia di “cantare”… si è c….o sotto dopo che gli hanno ucciso lo zio e subito si è ricordato come si campa dentro al sistema – quali sono le regole alle quali deve attenersi chi sceglie di servire la camorra – ….subito gli è passata la voglia di “cantare…”
Mario me lo ricordo che ero bambino e mi ha sempre trasmesso sentimenti buoni, mi ricordo che mio padre diceva sempre: “è proprio una brava persona” e lo diceva con ammirazione e anche con un po’ d’invidia. Crescendo ho capito che in Mario vedeva l’esempio di coraggio più pulito al quale si può ispirare un essere umano che sceglie di vivere da persona perbene, facendo sacrifici e accontentandosi di poco, seppure abbia la camorra “a portata di mano”. – si sia imparentato con figure di spessore di un clan come quello dei Sarno – Non era facile vivere la vita che aveva scelto Mario Volpicelli, ma è ancora più difficile accettare di morire come Mario Volpicelli. Ho pianto tanto per lui e non me ne vergogno. Non si può decidere di uccidere un uomo che si spacca la schiena in un negozio per tirare a campare dignitosamente per punire un altro “uomo” che ha deciso di vivere seguendo le regole della camorra e poi si è pentito.”