Scampia è un grande e decrepito teatro a cielo aperto, dove gli attori improvvisano scene dettate da un copione aleatorio, scritto dalle beffarde mani del mordace destino.
Ogni giorno, a Scampia, si gira un film inedito, nell’ambito del quale, gli attori ignorano quale scena saranno chiamati ad impersonare.
Pertanto, da quelle parti, il futuro è incerto, tutti i giorni, giorno dopo giorno, fino alla fine dei giorni.
Scampia non è “una” periferia di Napoli, ma “la” periferia, quella che incarna e rispecchia l’accezione di senso più autentica, fedele, discinta e primordiale del sostantivo “periferia”, intesa come porzione di una città situata al di fuori del suo centro storico.
Distante dal centro storico così come dalla storia che contraddistingue il cuore di Napoli, quella Scampia che ha saputo ritagliarsi con tracotante irruenza uno spazio tutto suo, improntando la sua, personale, tragica, frammista storia, verso una trama assai più complessa ed angariata.
Ma Scampia non è solo quella di “Gomorra” e dei video-documentari che qualche intrepido e borioso giornalista del Nord, sporadicamente, ci propina.
Scampia è la rassegnata e rabbiosa inerzia insita nel “lavoro” di un militare dell’esercito che, in un agghiacciante palcoscenico di barbarie come quello, si rivela incapace di intraprendere attività più efficaci e laboriose rispetto a quella di portare a spasso il suo carlino, alla ricerca di un frammento di quella fetta di mondo da imputridire ulteriormente con i suoi escrementi.
Scampia è l’affanno di una madre che si precipita ad acquistare un francobollo da affrancare alla missiva da spedire a chi, pochi attimi prima, avvalendosi di quel medesimo mezzo di comunicazione, gli ha fatto pervenire tutta la propria claustrale malinconia, unica compagna di cella, in quel distante, seppur geograficamente prossimo, spicchio di contrita, lugubre ed inaridita desolazione.
Scampia è l’indomita scaltrezza di bambini che ripudiano la scuola, inabili nel comprendere la concreta e sostanziale opportunità insita nell’istruzione, per privilegiare la vita di strada che, da quelle parti, si traduce in giochi assai più temibili rispetto alla semplice e bucolica pratica dell’infliggere quattro calci ad un pallone.
Scampia è anche l’accorta riservatezza di quei ragazzi che, invece, hanno “scelto la scuola” e camminano per strada tenendo i libri ben saldi al petto, avvolgendoli nella solenne, premurosa e preoccupata protezione che si riserva al più prezioso ed imperdibile dei beni.
Scampia è il silenzio, surreale ed assordante, che popola talune strade, deserte eppur trafficate dal doloroso frastuono che lacera l’anima di quella terra, depauperandola di speranza ed ottimismo.
Scampia è il quotidiano radunarsi di quei soliti vecchietti, afflosciati sulle sedie di quel solito bar, che gremiscono le loro ore sorseggiando quel solito caffè, mentre masticano l’amarezza di quei soliti inverosimili discorsi.
Scampia è una via crucis di storie, accomunate dalla tragicità che ne inonda la truce e sanguinaria realtà, di fidanzate, di madri, di nonne, di sorelle, deturpate e sfiancate dal protrarsi di quell’angosciante e perenne agonia che demarca e scandisce le loro giornate e spoglia le loro anime, fino a lasciarle completamente scarne, derubandole di tutto: della felicità, della speranza, dei sogni, della voglia di credere nell’amore, della fiducia nel futuro e in un mondo migliore, del desiderio di ambire ad una vita semplice e “normale”, della voglia di vivere.
Scampia è un cielo che non sa mai essere azzurro ed incapace di abbracciare il sole, perché sopraffatto da trafiggenti ed attanaglianti nubi sprezzanti strazio, insofferenza, dolore, inquietudine, la cui amorfa e svigorita rassegnazione è irradiata dal barlume di speranza insito in una frase che, con convinta bramosia, irrompe da un cavalcavia: “QUANDO LA FELICITà NON LA VEDI, CERCALA DENTRO.”
Scampia è il timore reverenziale che le vele, con tutta la loro indomita e perentoria prepotenza, sanno imporre allo spazio circostante e a tutto quello che in esso vi è incluso: persone, animali, alberi, coscienze.
Dalle vele si dirama il vuoto, le vele impongono omertoso silenzio, le vele sono fautrici di un austero dictat, imposto con indiscussa autorità a chi le abita, ma anche a chi le costeggia, le vele non conoscono pietà né perdono, le vele non contemplano la possibilità di conferire una “seconda opportunità” a chi si macchia con la colpa dell’errore.
Le vele sono il volto del cruento tiranno che troneggia su Scampia.
Scampia è lo strazio di un tossico, incapace di imprimere una direzione univoca ed assennata ai propri passi, così come alla sua stessa esistenza ed è costretto ad adagiarsi sul ciglio decrepito di un marciapiede, decrepito come la straziante solitudine insediata nelle sue stesse visceri ed espansa, come la più incurabile e letale delle metastasi, fin dentro agli angoli più intimi e remoti dell’anima.
Scampia è un’eterna notte che vive nella consapevolezza che, probabilmente, non vedrà mai l’eclissarsi della sua luna ed il dissolversi dei lugubri colori di quel funereo cielo per lasciare spazio ai bagliori di una fulgente e più fidente alba.
Scampia è un frammento di mondo che raccoglie tutte le ciclopiche, estreme, reprensibili ed inaccettabili accezioni di senso che nessun essere umano dovrebbe, mai, in nessun caso, conferire alla propria vita.
Scampia è “la periferia” di Napoli che veste le parvenze di un emarginato che, rannicchiato in un putrido e dimenticato angolo di mondo, stende una mano verso il cielo, animato dalla labile e tenue speranza che qualcuno ascolti il suo straziante canto d’aiuto e speranza e giunga a tendergli una mano per aiutarlo a rialzarsi.