Lo scorso 31 gennaio, Anja Ringgren Loven, fondatrice della ong indipendente African Children Aid Education and Development Foundation, trova in strada, un bambino di due anni in condizioni di totale denutrizione e di abbandono.
La trentenne danese, grazie a questa foto diramata su facebook, è diventata in pochi giorni una nuova Madre Teresa di Calcutta.
Una vicenda ambientata a Uyo, nel sud della Nigeria, dove ogni anno migliaia di bambini vengono lasciati in strada o direttamente uccisi dai genitori perché creduti “Ndoki”, ovvero, bambini stregoni.
Come mostrano le immagini riportate su Facebook, Anja si ferma davanti a quel corpo piccolo e magro. Lo avvolge in una coperta. Gli dà da bere, qualche biscotto da mangiare, gli fa il bagnetto. Gli dà anche un nome, “Hope”, Speranza. Nome calzante, appropriato, portatore sano di un messaggio che attraverso l’universalità conferita dai social network si ripropone di rilanciare l’impellente necessità di cambiamento.
È la stessa cooperante a raccontare sui social: «Vediamo bambini come Hope torturati, minacciati o uccisi solo perché qualcuno decide che sono maledetti». Immediatamente scatta la mobilitazione e Anja e suo marito, che da tre anni si trovano in Nigeria per costruire un orfanotrofio, riescono a raccogliere un milione di dollari. I soldi arrivano da tutto il mondo. «Con questo denaro possiamo dare un futuro a Hope e riservargli le migliori cure. Ma anche costruire una clinica e salvare tanti innocenti dalle torture».
Ora Hope, come mostrano anche le altre immagini postate in rete, sta meglio e gioca con il bambino di Anja. «È un bambino forte», spiega la sua nuova mamma. Le trasfusioni di sangue cui si è dovuto sottoporre e i vermi che gli infestavano la pancia ora sono un brutto ricordo.
“Hope” è davvero una storia di bella speranza.