I verbali delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, in primis dai fratelli Sarno, ricostruiscono intorno alla figura del sostituto commissario Vittorio Porcini uno scenario ben diverso da quello che oggi lo vede costretto agli arresti domiciliari, oltre che impegnato a difendersi con fermezza per provare la sua estraneità rispetto ai fatti che gli vengono contestati. Seppure quanto accaduto negli anni ’90 non fornisca elementi utili a scagionare Porcini, il passato concorre quantomeno a spiegare l’importanza del ruolo ricoperto dall’ispettore di Polizia di Stato, nell’ambito dell’attività di contrasto alla criminalità organizzata di Ponticelli fin dalle prime fasi della sua carriera.
Proprio in quegli anni, i clan di Ponticelli hanno ricoperto il ruolo di maggiore rilievo nel fitto e complesso mosaico che da decenni la camorra seguita a tessere all’ombra del Vesuvio, e proprio in quel periodo storico l’ispettore Porcini fece immediatamente intendere ai clan di Napoli est che non avrebbero avuto vita facile.
Gli ex boss di Ponticelli che con le loro deposizioni hanno concorso a ricostruire più di 30 anni di intrecci camorristici, hanno fin da subito dichiarato alla magistratura che Porcini fosse un poliziotto incorruttibile.
Le dichiarazioni rese dai fratelli Sarno, in particolare, disegnano uno scenario ben preciso intorno alla figura del sostituto commissario di Ponticelli: negli ‘anni ’90, la cosca del Rione De Gasperi arrivò a corrompere un poliziotto più alto in grado di Porcini per arrivare a lui, con l’intento di farlo avvicinare da un suo superiore, affinchè comprendesse che “la linea morbida” fosse la soluzione più comoda e sicura, non solo per lui, ma anche per i suoi familiari. Tuttavia, la tempra di Porcini era ben nota anche al suo superiore che spiegò ai fratelli Sarno che non poteva eseguire quell’ordine, in quanto avrebbero rischiato di finire tutti nei guai. “Porcini ci fa arrestare tutti”, spiegò il poliziotto ai fratelli Sarno.
In un verbale del 2009, l’ex boss Ciro Sarno detto ‘o sindaco, nell’ambito delle prime dichiarazioni rese da collaboratore di giustizia, ricostruisce una vicenda ben precisa, risalente al 1996. Beneficiando di un permesso di 48 ore, Ciro Sarno organizzò una cena con tutti i fedelissimi della cosca del Rione De Gasperi, alla quale partecipò anche Antonio De Luca Bossa, soprannominato Tonino ‘o sicco, all’epoca killer fedelissimo del clan.
‘O sicco pativa la pressione di quel poliziotto che più volte aveva minacciato, anche in modo piuttosto esplicito, ma che proprio non voleva saperne di dargli tregua. Allora, nel corso di quella cena, chiamò in disparte Ciro Sarno e gli chiese la testa di Porcini.
“Compà – disse ‘o sicco rivolgendosi a Ciro Sarno – mi devi fare un piacere. Mi devi dare il permesso per ucciderlo. Non c’è niente da fare – aggiunse ‘o sicco, proprio per fargli intendere che aveva già tentato tutte le strade utili per far capire a quel poliziotto che doveva indietreggiare – lo devo uccidere.”
Ciro Sarno prende del tempo per valutare la situazione. Ad avanzare quella richiesta era uno dei pezzi da 90 del clan che aveva fondato insieme ai suoi fratelli, uno dei killer più fidati, oltre che una figura percepita come un fratello acquisito, non solo da lui, ma anche dagli altri fondatori della cosca. Sull’altro piatto della bilancia, però, vi era un uomo dello Stato, un poliziotto che non solo non si era lasciato corrompere, ma che agiva con trasparenza, lealtà e correttezza. ‘O sindaco si rende conto di trovarsi davanti ad un bivio che, in ogni caso, avrebbe sancito un punto di non ritorno per la storia del clan Sarno e non solo.
Il rifiuto da parte di Ciro Sarno di portare a compimento un’azione delittuosa finalizzata ad uccidere l’ispettore Vittorio Porcini decretò la scissione di Antonio De Luca Bossa dal clan Sarno. ‘O sicco, non solo fondò un clan autonomo, ma cercò ed ottenne l’appoggio dei nemici più acerrimi dei Sarno: l’Alleanza di Secondigliano. Fu proprio il clan di Napoli nord a procurare a Tonino ‘o sicco la bomba con la quale ha messo la firma sul primo attentato stragista con autobomba compiuto in Campania e che lo ha condannato al carcere a vita. A perdere la vita sull’auto fatta saltare in aria da Antonio De Luca Bossa, il giovane nipote di Vincenzo Sarno, Luigi Amitrano.