La sera prima di essere ucciso, Walter Tobagi aveva preso la parola al Circolo della Stampa di Milano al dibattito “Fare cronaca tra segreto istruttorio e segreto professionale” per discutere del cosiddetto “caso Isman”, il giornalista de Il Messaggero Fabio Isman condannato a un anno e sei mesi di detenzione per avere pubblicato i verbali degli interrogatori al brigatista pentito Peci ricevuti dall’allora vice capo del SISDE Silvano Russomanno, anch’esso condannato.
Nel giro di pochi mesi, le indagini portarono all’identificazione degli assassini di Walter Tobagi. Le indagini accertarono che i terroristi lo avevano individuato da tempo come un “possibile obiettivo”.
La carriera giornalistica di Walter Tobagi cominciò al ginnasio come redattore della Zanzara, il celebre giornale del liceo milanese Parini. Dopo il liceo, entrò all’ Avanti! di Milano, ma pochi mesi dopo passò al quotidiano cattolico Avvenire. Furono anni di pratica alla scuola di “cronista sul campo” che lo portarono prima al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera.
Il suo interesse prioritario era per i temi sociali, l’informazione, la politica e il movimento sindacale, ma il suo impegno professionale maggiore Tobagi lo dedicò alle vicende del terrorismo. Al Corriere della Sera seguì tutte le vicende relative agli “anni di piombo”. Uno dei suoi ultimi articoli sui terroristi rossi è considerato tra i più significativi sin dal titolo: “Non sono samurai invincibili”.
Walter Tobagi, all’età di 33 anni, marito e padre di due figli, scrittore e docente universitario, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, venne ucciso alle 11 del 28 maggio 1980, sotto casa con cinque colpi di pistola da un gruppo di assassini della Brigata 28 Marzo poco dopo essere uscito di casa.
A sparare furono Mario Marano e Marco Barbone, 22 anni, figlio di un dirigente del gruppo editoriale Sansoni, controllato da Rizzoli. Insieme a Paolo Morandini, figlio del noto critico cinematografico e ad altri aveva costituito poco prima del delitto, un gruppo terroristico denominato “Brigata XVIII marzo”.
I due confessarono subito l’omicidio e cominciarono subito a collaborare con gli inquirenti, che identificarono gli altri membri del commando.
Marco Barbone, leader del gruppo, fu condannato a 8 anni e nove mesi, visto il suo status di collaboratore di giustizia ottenne la libertà provvisoria dopo tre anni di carcere scontati. Grazie alle sue dichiarazioni, furono individuati anche gli altri responsabili.
Paolo Morandini fu condannato a 8 anni e 9 mesi in quanto collaboratore di giustizia.