Giovanni Pomponio è un predestinato: figlio di un militare della Guardia di Finanza che si spostò dalla Campania, sua terra d’origine, per poi farvi ritorno alla fine della sua carriera. Giovanni perse suo padre poco più che adolescente e quando raggiunse la maggiore età parte volontario per la campagna d’Africa dalla quale tornò insignito della medaglia al merito di guerra per poi arruolarsi nel corpo di guardie P.S. Marito e padre di due figli, si trasferisce a Napoli dove viene inviato in forza alla Polfer.
Il 2 novembre 1975 sarebbe andato in pensione, dopo 37 anni di onorato servizio, ma il 28 ottobre, malgrado fosse il giorno del riposo settimanale, viene mandato a supporto dell’ufficio cassa presso la stazione centrale di Napoli.
“Ci sono gli stipendi da pagare e non abbiamo molti uomini per la sicurezza. Domani serve anche la sua presenza come responsabile di scorta”, questa la preghiera che i suoi superiori gli indirizzano la sera prima per indurlo a rinunciare al giorno di riposo per dare man forte ai colleghi. Il mattino seguente, Giovanni ha un impegno importante: partecipare alla messa in ricordo di una giovane nipote della moglie. La ragazza era morta il 28 di ottobre di sei anni prima, a 16 anni, a seguito di un incidente. Giovanni vuole assolutamente andare alla funzione religiosa, ma la moglie lo rassicura: “Non ti preoccupare. Dirò a mia sorella che non sei potuto mancare dal servizio. Io andrò con l’autobus e al ritorno prenderò un taxi”. Quel consiglio dato al marito, Antonietta Vigliotti non se lo perdonerà mai, fino alla morte. Il 28 ottobre del 1975, il vice brigadiere di Polizia Giovanni Pomponio è puntualmente al lavoro alla stazione ferroviaria di Napoli-Gianturco per scortare le paghe dei dipendenti delle Ferrovie. Sa che fra quattro giorni avrà tutto il tempo libero che vuole, perché andrà finalmente in pensione, dopo 37 anni di servizio in Polizia.
“E invece – racconta Sergio, il secondo figlio di Giovanni – la pensione non se la godrà mai, perché quella mattina mio padre verrà colpito a morte durante una rapina. Una banda di criminali assalta l’ufficio cassa. Sono armati di mitra e pistole per portare via 500 milioni che servono per pagare gli stipendi dei ferrovieri. Mio padre, ferito alla gola, morirà in ospedale, dopo tre giorni di agonia. Poteva rifiutarsi di rientrare in servizio quel giorno, ma lui era un servitore dello Stato, non sapeva dire di no”.
Giovanni Pomponio il 28 ottobre parte presto dalla sua casa al Vomero, vuole evitare il traffico mattutino. Le strade sono quasi deserte a quell’ora- Poco dopo le sette è già nella sede della Polizia Ferroviaria della stazione di Napoli-Gianturco. Giovanni non sa che ci sono anche altre persone che si sono alzate presto e che sono interessate agli stessi soldi che gli hanno chiesto di proteggere. Una banda di spietati rapinatori seriali torinesi, negli ultimi diciotto mesi hanno messe a segno ben sedici rapine. Sono arrivati a Napoli da qualche giorno, si spostano col treno, oppure in aereo, per evitare al massimo i controlli delle forze dell’ordine. Non si fanno vedere troppo in giro e non frequentano altre persone, solo quelle strettamente necessarie per organizzare nei minimi particolari le rapine. Colpiscono e spariscono senza lasciare tracce. Hanno saputo che a Gianturco il bottino è appetibile. Hanno avuto una soffiata da un basista e vogliono a tutti i costi mettere le mani sulle paghe dei ferrovieri.
Con Giovanni Pomponio ci sono altri sette agenti per difendere la cassa. Il vice brigadiere incarica cinque di essi di provvedere al trasferimento di 450 milioni alla stazione ferroviaria di Napoli Centrale, dove verranno pagati la gran parte degli stipendi. Abitualmente il trasporto delle paghe avviene intorno a mezzogiorno. Stavolta Giovanni Pomponio decide di anticipare questa incombenza. Appena in tempo. I rapinatori entrano in azione poco dopo le nove del mattino. Quattro banditi, armati di tutto punto, scavalcano il terrapieno di Rione Luzzatti e arrivano da un cancello laterale dell’ufficio cassa. Un cancello che sino ad allora è stato sempre chiuso.
Giovanni si accorge di una persona sconosciuta vicino all’ufficio paghe e forse vede anche un’arma che lo mette in allerta. Non ha notato che alle sue spalle ci sono altri due banditi. Carica il mitra e si gira verso lo sconosciuto: “Dove vai, fermati!”, gli intima. Quella mossa è la sua condanna a morte, perché da dietro gli sparano a bruciapelo per ucciderlo. Mirano alla testa, lo colpiscono alla nuca. Il proiettile fuoriesce dalla gola. Il colpo gli trancia la vena giugulare. Il vice brigadiere di Polizia cade a terra in una pozza di sangue. Un ferroviere ha visto tutto. Corre vicino a Giovanni cercando di soccorrerlo: “Bisogna portarlo in ospedale o morirà”. “Non lo toccare altrimenti farai la stessa fi ne”, gli grida uno dei banditi. Non si fanno scrupoli. Sono spietati. Si avvicinano al poliziotto a terra, gli sfilano il mitra e la pistola e continuano la rapina come se nulla fosse accaduto.
Giovanni morirà in ospedale, dopo tre giorni di agonia.