Il massacro di Ponticelli, avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 luglio del 1983, è una delle vicende di cronaca più efferate avvenute in Italia.
I cadaveri delle bambine, Barbara Sellini, di sette anni, e Nunzia Munizzi, di undici anni, terribilmente sfigurati, furono trovati a ridosso di una sopraelevata che copre l’alveo Pollena di Volla, una strada che attualmente collega la città con i paesi vesuviani ma che allora, non ancora ultimata, era stata trasformata in una sorta di discarica e veniva impiegata per le corse clandestine di cavalli.
Fu proprio lì, tra le sterpaglie e la spazzatura, che la mattina del 3 Luglio 1983, agli occhi delle forze dell’ordine accorse sul posto su segnalazione di alcuni ragazzi del luogo, si presentò uno spettacolo agghiacciante: i corpicini straziati e strappati alla vita delle due bambine.
La perizia medico legale d’ufficio stabilì che le vittime erano state ripetutamente colpite con un coltello a serramanico, da un’unica persona, un « sadico », che le aveva seviziate allo scopo di imporre loro sofferenza.
Il quartiere Ponticelli accolse la notizia del ritrovamento dei cadaveri delle due bambine, dopo essersi lasciato alle spalle una lunga e travagliata notte. L’allarme della scomparsa delle due bambine scattò la sera prima, intorno alle 20, quando i genitori non le videro rincasare: tutti gli abitanti del rione Incis nel quale le bambine vivevano, si attivarono personalmente per effettuare le ricerche e setacciarono tutte le campagne vicine senza, però, ottenere alcun risultato.
Antonella Mastrillo, compagna di banco di Nunzia Munizzi, subito dopo la tragica notizia, rivelò spontaneamente alcuni particolari significativi alla madre di Barbara Sellini: la sera del 2 luglio dopo le ore 19, aveva visto Barbara e Nunzia allontanarsi dal quartiere e salire su una Fiat 500 blu, nei pressi della pizzeria La Siesta.
Pochi giorni dopo, gli inquirenti scoprirono che all’appuntamento doveva partecipare anche una terza bambina di nome Silvana
Sasso, che si era salvata solo perché i suoi familiari non le avevano accordato il permesso per uscire. La piccola Silvana confermò agli inquirenti che le due amichette, invitandola ad andare con loro, le avevano segretamente rivelato che la sera
del 2 luglio dovevano recarsi ad un appuntamento con un ragazzo più grande che voleva offrire loro «un gelato o qualcos’altro» e fornì nuovi particolari: Barbara e Nunzia da qualche tempo erano solite frequentare da un certo Gino che, spesso, offriva loro un gelato e proprio con lui avrebbero dovuto incontrarsi quella sera.
Gino, che usava una Fiat 500 di colore verde scuro, era alto circa 1,75 mt., di corporatura robusta, con capelli biondi e lisci, baffetti sottili ed efelidi al viso. A causa della possente stazza fisica e delle lentiggini Barbara e Nunzia gli avevano dato l’appellativo di «Tarzan tutte lentiggini».
Le indagini seguirono la pista tracciata dai piccoli testimoni. La polizia setacciò la zona alla ricerca di «Tarzan». Intanto, allo scopo di collaborare nell’individuazione del feroce assassino, diversi abitanti del rione Incis che in precedenza avevano subìto tentativi di violenza sessuale o che erano a conoscenza di eventi analoghi, sporsero spontaneamente denuncia. Le indicazioni fornite consentirono agli inquirenti di individuare un uomo, i cui tratti somatici corrispondevano sommariamente a quelli descritti dalla piccola Silvana Sasso e che, a causa della corporatura robusta, veniva chiamato dai conoscenti «Maciste», un soprannome analogo a quello attribuitogli dalle piccole.
Fermato e interrogato, affermò di non avere un lavoro stabile, di dedicarsi saltuariamente alla vendita di statuine e immagini sacre presso i negozi di vari quartieri, compreso quello di Ponticelli; asserì che aveva l’abitudine di farsi chiamare Luigi e di aver familiarizzato con i bambini della zona, di esser stato nel rione Incis per motivi di lavoro nel pomeriggio del 2 luglio e che quel giorno non era insieme all’amico che lo accompagnava di solito. Puntualizzò inoltre di aver parcheggiato la sua macchina, una Fiat 500 blu con un fanale rotto, nella stessa zona in cui si erano perse le tracce di Nunzia e Barbara, sostenendo peraltro
di essersi trattenuto a parlare con due ragazzine e di essere poi rientrato a casa intorno alle 17.30-18. Dichiarò, infine, di provare una forte attrazione verso i bambini e di essere propenso alla pratica di condotte violente e sessualmente deviate a causa dell’abuso di sostanze alcoliche.
Inoltre, riferì di aver appreso dai giornali, pur essendo quasi analfabeta, la notizia della morte delle due bambine e di aver visto sugli stessi la foto dei due corpicini abbracciati, seppure le immagini dei due cadaveri non furono mai divulgate da nessun organo di stampa.
Seppure «Maciste» fosse l’indiziato numero uno e su di lui pesavano gravi indizi di colpevolezza, nel momento cruciale e più delicato, gli inquirenti commisero gravi leggerezze che compromisero e sviarono le successive indagini.
L’auto di “Maciste” non fu mai sequestrata e non fu mai arrestato, malgrado la moglie avesse smentito il suo alibi, dichiarando alla polizia che il marito quella sera rientro a casa tra le 20.30 e le 21.
Nello stesso isolato delle due bambine, abitava anche un altro ragazzo con evidenti e noti problemi di natura psicologica legati, soprattutto, alla sfera sessuale. Il giovane, poco tempo prima dell’omicidio delle due bambine, era stato accusato di violenza in danno di un bambino di quattro anni e due mesi prima aveva tentato di violentare sua sorella Angela, infliggendole numerose coltellate.
Il giovane si sarebbe suicidato nel 1986, gettandosi da una finestra della sua abitazione, quando vide i carabinieri fare irruzione sotto casa sua.
La città di Napoli, nonostante fosse abituata alle cruente notizie di cronaca legate alle guerre di camorra, appariva spaventata all’idea che potesse esistere un « mostro ». Il colpevole doveva essere consegnato presto alla giustizia e ad incrementare notevolmente la pressione giunse un accorato appello al Presidente della Repubblica Sandro Pertini da parte della madre di una delle due bambine. Pertini dichiarò pubblicamente che il caso non avrebbe dovuto essere archiviato facendo intendere
che era necessario trovare i colpevoli dell’orrendo delitto in breve tempo.
Di lì a poco, il 3 settembre 1983 le indagini si conclusero con l’arresto per il duplice brutale omicidio di tre giovani: Imperante Ciro, La Rocca Giuseppe e Schiavo Luigi.
Tratti a giudizio vennero condannati all’ergastolo con sentenza ormai definitiva e da quasi quarant’anni sono considerati “i mostri di Ponticelli, nonostante si siano sempre proclamati innocenti.
Di recente, il caso è approdato al vaglio della Commissione Parlamentare Antimafia che dopo aver analizzato il vasto elenco di prove che scagionano i tre ragazzi, ormai diventati uomini, si è espressa all’unanimità a favore della revisione del processo.
L’estraneità dei giovani rispetto ai fatti per i quali sono stati invece condannati all’ergastolo è supportata da plurime prove, così come evidenziato prima dal giudice antimafia Ferdinando Imposimato, tra i più forti sostenitori dell’innocenza dei tre ragazzi e poi dalla criminologa Luisa D’Aniello e dall’investigatore Giacomo Morandi che nel corso degli anni sono riusciti ad incrementare la mole di prove che non solo fanno vistosamente vacillare le accuse mosse ai tre ragazzi, ma concorrono anche a scardinare e sbugiardare le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia che indicarono Imperante, La Rocca e Schiavo come i responsabili del massacro delle due bambine.
Nei giorni scorsi, la relazione finale proposta dall’onorevole Stefania Ascari è stata pubblicata sul sito del parlamento, dopo essere stata approvata all’unanimità dalla Commissione Parlamentare Antimafia.
L’onorevole Ascari che ha coordinato la relazione pubblicata nei giorni scorsi sul sito del Parlamento, insieme alla criminologa Luisa D’Aniello e all’investigatore Giacomo Morandi, ha definito il massacro di Ponticelli “una delle storie più cruente che il nostro Paese ricordi”, oltre che “uno dei peggiori errori giudiziari della nostra storia recente”.