Dai vari istituti penitenziari italiani in cui sono recluse le figure apicali della malavita dell’area orientale di Napoli giungono notizie che narrano di giornate travagliate: c’è chi piange tutto il giorno, chi lamenta disagi psichici, altri puntano su condizioni fisiche precarie per ambire ad una detenzione meno dura.
L’unico dato certo è che il quadro configuratosi contestualmente al blitz che ha sancito la fine dell’era dei De Luca Bossa-Minichini-Casella-Aprea-Rinaldi si aggrava di giorno in giorno, in maniera direttamente proporzionale alla consapevolezza della gravità della condizione dei vari soggetti arrestati. Troppo schiaccianti le accuse che pendono sul loro capo, troppo utopistico sperare in un’assoluzione, in virtù della mole di intercettazioni che ricostruiscono con dovizia di particolari gli intrecci camorristici degli ultimi anni, per giunta pienamente riscontrate anche dalle dichiarazioni rese da ben 11 collaboratori di giustizia.
Sul fronte camorristico della periferia orientale di Napoli, in particolare a Ponticelli, si rileva un clima assai simile a quello che meno di vent’anni fa introdusse la fine dell’era dei Sarno: la faida, efferata e concitata, seguita dagli arresti che ben presto sfociarono in un valzer di pentimenti che di fatto hanno concorso a decapitare il clan che per circa trent’anni ha troneggiato sull’intera ala est partenopea, riuscendo a conquistare anche i comuni del vesuviano e il ventre della città.
Le casse dell’organizzazione non sono in grado di sostenere una mole tanto onerosa di spese: non solo gli stipendi da garantire ai detenuti e ai loro parenti, proprio per scongiurare il pericolo del pentimento, ma anche e soprattutto le parcelle degli avvocati chiamati a difendere boss ed affiliati. Complice una gestione economica poco oculata, scaturita dalla consapevolezza che mai potesse configurarsi un vuoto di potere tale da non riuscire a garantire al clan un numero adeguato di reclute dedite alle estorsioni e al business della droga, gli affari illeciti che rappresentano la principale fonte di guadagno, soprattutto per i De Luca Bossa, il clan che per la prima volta nella storia vede tutti i membri della famiglia dediti alla malavita reclusi in carcere. Nessuna figura di spicco in grado di “portare il cognome” può gestire gli affari illeciti per conto e per nome del clan fondato da Antonio De Luca Bossa. E anche questi dettagli nella malavita contano. La cosca del Lotto O ha perso prestigio, timore reverenziale e presenza sul territorio in un unico frangente: all’alba del 28 novembre quando l’elicottero che aleggiava su Ponticelli sembrava annunciare ai civili la fine delle ostilità.
Non si aspettavano una stangata così sonora da parte dello Stato, i clan alleati di Napoli est ipotizzavano che l’unico pericolo da sventare fosse quello legato all’eterna faida con i rivali del clan De Micco che, dal loro canto, si apprestano ad affrontare il processo per l’omicidio D’Onofrio, il 23enne figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, freddato in un agguato nell’ottobre del 2021. Anche in questo caso, le indagini si sono concluse in tempi record e hanno portato all’arresto del boss Marco De Micco e delle altre figure di spicco del clan responsabili, a vario titolo, di aver partecipato al delitto. Un processo atteso, proprio perchè la giovane età degli imputati e la condizione di sofferenza manifestata da alcuni di loro in carcere, potrebbero spianare la strada che conduce alla collaborazione, anche su questo fronte camorristico.
Dal loro canto, gli avvocati sanno che alla consistente somma di denaro “buttata sul tavolo” – per dirla in gergo camorristico – per accaparrarsi una buona difesa, all’indomani degli arresti, principalmente per tentare di giocarsi il tutto per tutto al riesame, non faranno poi seguito dei pagamenti ugualmente lauti e regolari, complice il noto stato di difficoltà che la cosca si vedrà costretta a fronteggiare ancor più con il passare del tempo. Inoltre, una mole di prove tanto schiaccianti quanto corposa richiede uno sforzo importante per un professionista intenzionato ad imbastire un quadro difensivo consono, senza considerare i tempi lunghi che contraddistinguono gli iter processuali italiani. Ne sono consapevoli gli affiliati al clan che hanno già incassato l’ergastolo per l’omicidio Colonna-Cepparulo, malgrado abbiano provato ad alleggerire la loro posizione nei vari gradi d’appello, vedendosi sistematicamente confermare il fine pena mai fino alla Cassazione. Proprio per questo, tra gli ergastolani già provati dalla sonora condanna, si teme che possa manifestarsi il primo segnale di debolezza che potrebbe dare il via al vortice dei pentimenti. Un’ipotesi rafforzata da un altro dato di fatto tutt’altro che irrilevante: gli ergastolani si vedono costretti a rinunciare alle visite e ai colloqui dei parenti finiti in carcere, oltre che ad un sussidio tutt’altro che scontato. Il caso emblematico in tale ottica è rappresentato da Anna De Luca Bossa, sorella di Antonio e Giuseppe: anche sua figlia Martina Minichini è finita dietro le sbarre e in questo modo, la lady-camorra del Lotto O, ha perso l’appoggio dell’unica figlia rimastagli in vita. L’altro figlio, Antonio, fu assassinato all’età di 19 anni. Anna De Luca Bossa, in passato, aveva già avviato il percorso di collaborazione, per poi tornare sui suoi passi, ma le dichiarazioni rese alla magistratura furono comunque utilizzate. Non è un segreto che madre e figlia siano legatissime e che l’idea del carcere a vita sia vissuta malissimo dalla De Luca Bossa. In tanti hanno percepito il festeggiamento di compleanno virtuale, celebrato in videochiamata con i parenti riuniti intorno ad una torta, come un palese tentativo di incutere forza alla donna. Un video pubblicato sui social per rilanciare le quotazioni dei De Luca Bossa nel quale però in tanti hanno carpito un segnale di debolezza da smorzare facendo sentire alla lady-camorra tutto l’affetto della famiglia.
In questo clima, Anna De Luca Bossa non è la sola mamma-camorra che potrebbe optare per il pentimento, l’altro nome che circola con insistenza è quello di Luisa De Stefano, “la pazzignana” del rione De Gasperi. Quest’ultimo scenario è forse il più temuto, proprio perchè suo figlio Tommaso Schisa figura tra i collaboratori che da ormai tre anni stanno contribuendo a sgominare la malavita ponticellese e ovviamente, laddove la mamma dovesse confermare le dichiarazioni già rese alla magistratura dal figlio, la posizione di molti altri soggetti – in primis i parenti ancora a piede libero – si aggraverebbe notevolmente.
Un timore tutt’altro che infondato, in quanto proprio dalle carceri trapela un altro rumors secondo il quale diversi soggetti contigui alla malavita ponticellese, fin dai giorni successivi al blitz che ha sancito la fine di un’era camorristica, avrebbero manifestato la volontà di parlare con i magistrati.
A fronte di un’indagine meticolosa ed articolata che delinea in maniera chiara il ruolo ricoperto da ogni singolo soggetto arrestato, in ciascuno di loro regna la consapevolezza che l’unica alternativa al lungo e buio periodo di detenzione che li attende è quella di emulare le gesta degli ex sodali che con le loro dichiarazioni hanno concorso ad aggravare le loro posizioni.
Il pentimento è l’unica strada da perseguire, seppure questo vorrebbe dire seguire le orme degli odiati Sarno, puniti per le dichiarazioni rese alla magistratura con l’assassinio dei parenti estranei alle dinamiche camorristiche: Mario Volpicelli, cognato degli ex boss di Ponticelli, commesso in una merceria; Giovanni Sarno, fratello dei collaboratori, disabile e alcolizzato. Due persone estranee alle dinamiche camorristiche, due delitti pesanti. Ne sono consapevoli i responsabili ed è proprio questo lo scenario più temuto. I soggetti rimasti a piede libero che vivono nel lancinante timore che ben presto possano aprirsi le porte del carcere anche per loro, fanno calcoli, sulla base degli elementi trapelati dall’ultima ordinanza proprio in merito alla strage dei parenti dei Sarno.
L’unico dato certo è che il collaboratore Tommaso Schisa, figlio della “pazzignana” Luisa De Stefano e dell’ex Sarno Roberto Schisa, entrambi condannati all’ergastolo, ha fornito alla magistratura le informazioni in suo possesso circa la cosiddetta “vendetta contro i parenti dei pentiti dei Sarno”, ricostruendo scenari, moventi, dettagli precisi. La sensazione che trapela tra i palazzoni del Rione De Gasperi, il fatiscente fortino delle “pazzignane” ormai alle corde, è che la magistratura attenda dei riscontri che solo un altro pentito informato sui fatti può essere in grado di fornire. Per questa ragione lo scenario più temuto è proprio quello destinato a ricostruire agli occhi degli inquirenti i retroscena e i fatti sconosciuti, proprio come accadde quando i Sarno decisero di autodistruggere il loro impero.
La malavita ponticellese teme l’effetto domino: in questo clima, in virtù di uno scenario così scoraggiante, appare piuttosto prevedibile che non appena si diffonderà la notizia del primo pentimento eclatante, si assisterà alla corsa contro il tempo da parte degli altri affiliati tutt’altro che intenzionati a rinunciare ad una vita normale per trascorrere decenni in carcere da “uomini d’onore”.