Barbe folte, corpi intrisi di tatuaggi, la scarsa dimestichezza con la lingua italiana ostentata a suon di video-spot che inneggiano alla malavita sui social network, abiti e scarpe griffate: sono i guerriglieri islamici di casa nostra, la nuova generazione di baby-camorristi che manifesta un indole spregiudicata, irriverente, dalla quale trapela la totale e lucida assenza di consapevolezza della gravità delle loro azioni.
Giovani kamikaze mandati al massacro dai boss che si guardano bene dall’esporsi al pericolo di beccarsi un ergastolo per compiere un omicidio o quel genere di azioni armate alle quali i rivali possono replicare con gli spari, innescando un conflitto a fuoco.
La camorra è cambiata, questo è evidente.
Tra le strade di Napoli, dal cuore del centro cittadino, passando per i quartieri di periferia, si respira un clima in netta antitesi con la calma apparente, figlia di quel controllo capillare del territorio, peculiare degli anni ’80 e ’90, quando i Giuliano, i Di Lauro, i Sarno, i Mazzarella, garantivano la quiete pubblica, riducendo al minimo indispensabile le azioni armate, per privilegiare gli affari illeciti.
Il sangue, gli spari, l’indignazione pubblica richiamano l’attenzione delle forze dell’ordine e di conseguenza lo spaccio, il contrabbando, i “business visibili” subiscono brusche battute d’arresto.
I pentimenti, i blitz che hanno concorso a decapitare i cartelli camorristici più datati, hanno concorso a ridisegnare un nuovo scenario, la cui peculiarità va ricercata nel precario equilibrio che si registra in ogni rione, in ogni vicolo, in ogni angolo di strada in cui si rileva la presenza di due fazioni avverse che si osteggiano per spartirsi quella fetta di territorio. Alle loro spalle, due grandi cartelli camorristici, solo due: l’Alleanza di Secondigliano – costituita dalle famiglie Contini, Mallardo e Licciardi – e i Mazzarella. Due organizzazioni che seguitano a condurre affari illeciti che assicurano guadagni da capogiro e che si proiettano ben oltre il mero business della droga. Appalti, investimenti, imprese, business puliti e redditizi, ma soprattutto “invisibili” , in quanto richiedono un’attività investigativa ben più articolata e complessa, concorrono a rifocillare le casse dell’organizzazione, mentre i giovani manovali sono intenti a creare “distrazioni” a suon di schermaglie e spari per tenere impegnate le forze dell’ordine.
Mentre “i capi” continuano indisturbati a condurre gli affari, i giovani affascinati dalla chiamata alle armi della camorra, muoiono ammazzati e accade proprio perchè, oggi come negli anni ’80 e ’90, il sangue, gli spari, l’indignazione pubblica richiamano l’attenzione delle forze dell’ordine.
Giovani disposti ad uccidere un coetaneo per poche migliaia di euro, i guerriglieri islamici di casa nostra spacciano e delinquono per uno stipendio equiparabile a quello di un manovale, un operaio. Una prospettiva allettante, agli occhi di giovani ingenui che percepiscono la possibilità di guadagnare senza faticare come un ottimo affare, senza contemplare però i plurimi rischi ai quali si espongono. Questo, però, non è l’unico aspetto che li sprona a rispondere alla chiamata alle armi della camorra.
In tale ottica, l’input che il boss Marco De Micco di Ponticelli è stato in grado di inculcare nel nutrito parterre di giovanissimi che costituisce il suo esercito, assume un significato assai indicativo.
Il boss fondatore dell’omonimo clan è tornato nel quartiere della periferia orientale di Napoli, dopo un decennio trascorso in carcere, a marzo del 2021 ed è finito nuovamente dietro le sbarre ad aprile del 2022.
Un anno, a Marco De Micco è bastato un anno per compromettere il futuro di decine e decine di giovani.
Nell’arco di 12 mesi è stato in grado di determinare un vortice di eventi che ha travolto le vite di decine e decine di giovanissimi, alle quali si aggiungono quelle delle reclute già adescate negli anni precedenti, quando quel ragazzo venuto dal nulla è riuscito a diventare un boss capace di conquistare Ponticelli, il suo quartiere, partendo dalla semplice gestione di una piazza di droga al soldo dei Cuccaro di Barra.
Oggi, a Ponticelli, “Bodo”, il soprannome di Marco De Micco, poi esteso agli affiliati al suo clan, non è un semplice nomignolo, ma un ideale per il quale decine e decine di giovani sono disposti a tutto, soprattutto a morire.
Complice il carisma, una sfilza di miti e leggende metropolitane che aleggiano intorno alla sua figura, Marco De Micco è l’idolo più osannato dalla stragrande maggioranza dei ragazzi di Ponticelli.
Dalla vasta collezione di rolex ai precetti impartiti alle giovani menti che ha istruito a immagine e somiglianza della necessità di costruire delle fondamenta solide sulle quali radicare un impero indistruttibile, grazie al prezioso supporto dei Mazzarella, Marco De Micco, agli occhi dei suoi “discepoli” non è un boss, ma una celebrità, al pari dei calciatori e dei rapper tanto in voga, un Dio in terra, da venerare e onorare, anche sacrificando la vita.
Marco De Micco è il Maometto di Ponticelli che sta traghettando verso l’autodistruzione decine e decine di giovani vite.
Lo comprova il blitz che ad aprile del 2022 ha fatto scattare le manette per il boss ed altri quattro affiliati, tutti giovanissimi. Accusati di aver partecipato, a vario titolo, all’omicidio di un 23enne, Carmine D’Onofrio: il figlio naturale del boss rivale Giuseppe De Luca Bossa, condannato a morte da Marco De Micco perchè identificato come l’attentatore che lanciò una bomba nel cortile della sua abitazione, lì dove la figlia del boss è solita intrattenersi a giocare con i cuginetti.
Una condanna a morte che ben spiega la politica intransigente imposta dai “Bodo”, dove chi sbaglia, chi osa indirizzare un atto oltraggioso al boss, paga con la vita.
In perfetta intesa con il modus operandi perseguito dalle grandi organizzazioni, anche i De Micco di Ponticelli stanno preservando “i pezzi da 90” del clan, relegando il lavoro sporco e le azioni efferate alle giovani leve.
Giovani che uccidono altri giovani in cambio di lauti guadagni o della gestione di un rione: i boss, esperti, maturi, cinici, temprati, sanno bene che più dei soldi, il potere può fomentare gli animi dei ragazzi che scalpitano per marcare la scena camorristica da leader. Controllare un rione, ancora meglio se è il rione in cui sei nato e cresciuto, il rione dove tutti ti conoscono, il rione in cui tutti sono costretti a rispettarti e a temerti, se sei “il capo”. Uno status per il quale, i giovani guerriglieri islamici di casa nostra, sono pronti a dare la vita.
Non importa per quanto tempo saranno loro a comandare nel rione, seppure dovesse arrivare la morte, per i giovani guerriglieri islamici di casa nostra, anche solo un giorno trascorso da “capo”, vale una vita intera.
Cosa resterà di loro?
Una scritta sbiadita sulla parete di un palazzo fatiscente, un video-tributo sui social che ne esalterà le gesta terrene e il sacrificio umano, marchiandolo come “un leone”, “un eroe”, “un guerriero”, appunto.
La capacità di attecchire come un tarlo roditore nelle giovani menti di ragazzi acerbi, complice anche l’uso spropositato di alcool e droghe, passa attraverso una serie di piccole, ma significative azioni. Sullo scacchiere della camorra nulla è lasciato al caso e dietro ogni singola azione, si cela una motivazione ben precisa.
Il magnanimo gesto di un boss che concede ad un giovane affiliato un giro a bordo di un’auto di lusso che non potrebbe permettersi mai, i colloqui in videochiamata, malgrado la detenzione, per mantenere un contatto visivo con gli affiliati, soprattutto con quelli più giovani e ribelli, l’ordine di non parlare mai degli omicidi compiuti, non solo per sventare il pericolo insito nelle intercettazioni, ma anche per impedire a quei giovani di dare voce ai loro stati d’animo.
Negli ultimi tempi, in questo clima, a Ponticelli aleggia con insistenza un rumors inquietante, secondo il quale, i giovani sui quali il clan avrebbe puntato con maggiore insistenza per compiere diversi omicidi, di qui a poco potrebbero andare incontro ad un atto di epurazione interna, per sventare il pericolo di un possibile crollo psicologico che potrebbe tradursi in un prevedibile pentimento, in caso di arresto.
Il recente pentimento di Antonio Pipolo ha squarciato una ferita che sanguina ancora nell’orgoglio e nei sogni di gloria del clan De Micco. Un colpo di scena imprevedibile che rischia di arrecare notevoli danni al clan al quale Pipolo era affiliato. Un pentimento temuto, proprio all’indomani degli arresti scaturiti dall’omicidio di Carmine D’Onofrio. I vertici della cosca presagivano che Pipolo potesse capitolare, laddove per lui fossero scattate le manette e per questo ne ordinarono la morte.
Quando quella “soffiata” giunse alle orecchie di Pipolo, il 27enne decise di impugnare una pistola e fare irruzione nel basso che Carlo Esposito, l’affiliato che gli fu indicato come il killer designato a compiere quell’atto di epurazione interna, era intento a ristrutturare, in procinto di andarci a vivere con la sua compagna. Sprezzante della presenza del 53enne Antimo Imperatore, il factotum del rione che si guadagnava da vivere compiendo lavoretti di manutenzione, Pipolo spara prima a quest’ultimo e poi ad Esposito e poche ore dopo si presenta in procura per avviare il percorso di collaborazione di giustizia.
Un capitolo destinato a sancire il punto di non ritorno nella storia camorristica dei De Micco che nel corso degli anni hanno dovuto fare i conti con altri affiliati che hanno deciso di pentirsi e che ugualmente temevano per la propria incolumità, ma mai prima d’ora i “Bodo” di Ponticelli si erano visti costretti a fronteggiare uno scenario dagli esiti così incerti.
Motivo per il quale, si rafforza di giorno in giorno l’ipotesi che introduce l’epurazione interna come uno dei principi cardine della politica praticata dal clan per ridurre il margine di pericolo, scongiurando altri scivoloni.
Giovani menti soggiogate dall’utopistica brama di rivalsa, la cui sete di potere viene sedata a suon di delitti eccellenti, utili a consolidare l’egemonia del clan, ma dei quali, al momento opportuno, sarebbe necessario disfarsi, perchè dopo aver messo la firma su due, tre, quattro omicidi, “i capi” sanno che la storia terrena di un killer arrestato può concludersi solo con un “fine pena mai” al quale è possibile sottrarsi ad un’unica condizione: collaborando con la giustizia.
D’altronde, i giovani guerriglieri islamici di casa nostra presentano tutte le caratteristiche dell’agnello sacrificale da mandare al macello per assecondare necessità e bisogni dei “veri capi”.