I collaboratori di giustizia, un tempo radicati nelle dinamiche camorristiche della periferia orientale di Napoli, stanno dando un contributo prezioso nel chiarire le circostanze in cui sono avvenuti alcuni omicidi recenti, ancora irrisolti.
Determinante, in tal senso, si preannuncia il contributo che i collaboratori stanno fornendo alla magistratura per definire ruoli e dinamiche degli omicidi che hanno segnato la cosiddetta “vendetta contro i parenti dei Sarno”. Gli ex boss di Ponticelli, poi passati dalla parte dello Stato, hanno infatti pagato con il sangue dei parenti innocenti le dichiarazioni rese alla magistratura, in particolare quelle che hanno portato alla condanna all’ergastolo in via definitiva per tutti coloro che hanno partecipato alla strage del Bar Sayonara, una scellerata azione militare, compiuta da killer poco lucidi, sotto effetto di stupefacenti, che entrarono in azione di sabato pomeriggio, in uno dei bar più frequentati del quartiere. Il bollettino di guerra fu disastroso: sei morti, quattro dei quali estranei alle dinamiche camorristiche. Una strage di innocenti punita con un prevedibile fine pena mai, vendicato dai parenti dei condannati con gli omicidi di altre persone estranee alle dinamiche camorristiche, solo perchè imparentate con i Sarno, gli artefici dell’autodistruzione del clan che per trent’anni ha troneggiato su Ponticelli, estendendosi ben oltre i confini del quartiere.
Una serie di omicidi voluti per punire i collaboratori di giustizia, ora ricostruiti da altri collaboratori di giustizia, coinvolti in prima persona in quella sanguinaria vendetta. Un circolo vizioso destinato a generare altri ergastoli.
Tra i collaboratori in grado di fornire il contributo più prezioso in tal senso, spicca senza dubbio Tommaso Schisa, giovane rampollo del clan delle “pazzignane”, le donne che hanno sopravvissuto al valzer di arresti e pentimenti che ha inflitto un durissimo colpo alle finanze dell’organizzazione ereditata dalle boss in gonnella, arroccate nel rione De Gasperi e tornate alla ribalta dopo un lungo periodo trascorso in sordina e alla mercè dei clan più autorevoli. Un ritorno in auge garantito dall’adesione all’alleanza costituita dai vecchi clan di Napoli est: gli Aprea di Barra, i Rinaldi di San Giovanni a Teduccio, i Minichini-De Luca Bossa di Ponticelli. Tutte famiglie rimaneggiate e danneggiate dal pentimento dei Sarno e animate dalla brama di riscatto e dal desiderio di vendicarsi degli “infami” che con le loro dichiarazioni hanno incastrato i loro congiunti. In ciascuna delle famiglie confluite nell’alleanza, infatti, si rileva la presenza di un parente, nonchè pezzo da novanta del clan d’appartenenza, costretto a rispondere davanti alla legge dei reati compiuti per effetto delle rivelazioni dei fratelli Sarno.
Tra i membri dell’alleanza ci sono però due famiglie, in particolare, animate da un desiderio di vendetta ben più alacre e covato dalla sera del 29 gennaio del 2013 quando i killer Salvatore De Micco e Gennaro Volpicelli, per conto del clan De Micco, entrarono in azione per uccidere Gennaro Castaldi, giovane affiliato ai D’Amico che si trovava in compagnia di un amico, il 18enne Antonio Minichini, figlio di Anna De Luca Bossa e del boss Ciro Minichini. Il giovane rampollo di due famiglie camorristiche di primo ordine fu assassinato solo perchè si trovava sullo scooter insieme a Castaldi, quando i sicari aprirono il fuoco per mettere a segno l’ennesimo punto d’oro nell’ambito della faida in corso in quel momento storico per il controllo dei traffici illeciti. Una morte che ha sancito un punto di non ritorno nella storia camorristica della periferia orientale di Napoli, proprio perchè in nome di quella vedetta i fratelli Alfredo e Michele Minichini – figli del boss Minichini e fratellastri di Antonio – hanno messo la firma su una serie di azioni efferate: una su tutte, l’omicidio di Mario Volpicelli, cognato dei fratelli Sarno, in quanto sposato con una delle sorelle degli ex boss di Ponticelli e zio di Gennaro Volpicelli, uno degli assassini di Antonio Minichini.
I clan alleati di Napoli est non hanno mai lanciato il guanto di sfida ai De Micco per contendersi a viso aperto la leadership del quartiere e saldare al contempo il pesante conto in sospeso, a riprova di quanto fosse temuta la forza militare della cosca che a suon di azioni spietate e violente riuscì in poco tempo a colmare il vuoto di potere scaturito dalla fine dell’era dei Sarno. Tant’è vero che un vero e proprio colpo di fortuna ne ha favorito il ritorno alla ribalta quando, nel novembre del 2017, un blitz portò all’arresto di 23 figure di spicco del clan De Micco, infliggendo all’organizzazione un colpo durissimo del quale i clan alleati approfittarono per conquistare il controllo del territorio senza spargimento di sangue.
Non riuscendo – o meglio non volendo – colpire una figura apicale del clan De Micco, probabilmente perchè consapevoli di non disporre della forza per ordire un piano così ambizioso e ancor più temendone le conseguenze, i clan alleati concentrano la loro vendetta su un bersaglio più facile da stanare e per giunta estraneo alle dinamiche camorristiche.
Mario Volpicelli, commesso in una merceria, 53 anni, marito e padre di re figli, nonno di tre nipoti. Il primo porta il suo nome, l’ultimo non lo ha mai conosciuto, perchè venuto al mondo in seguito al suo brutale assassinio.
Quello andato in scena per assassinare Mario Volpicelli è un piano di morte pianificato nei minimi dettagli, a partire dal giorno in cui è avvenuto: il 30 gennaio 2015, all’indomani dell’anniversario della morte di Antonio Minichini, alla vigilia di San Ciro, il giorno in cui avrebbero festeggiato l’onomastico sia Ciro Minichini che l’ex boss pentito Ciro Sarno. Un omicidio che risuona come un regalo per entrambi: il primo avrebbe festeggiato anche l’avvenuta vendetta per la morte del figlio, il secondo sarebbe stato condannato ad associare al suo onomastico la morte violenta del cognato al quale era più legato e che stimava tanto, soprattutto per il fatto che aveva deciso di mantenersi sempre alla larga dagli affari del clan, prediligendo il lavoro umile, dignitoso, onesto.
Quel sabato sera, due killer a bordo di una motocicletta raggiusero Mario Volpicelli mentre percorreva la strada che dal negozio dove lavorava lo riconduceva a casa, nel rione De Gasperi. Stringeva ancora le buste della spesa tra le mani, quando venne assassinato come un boss, raggiunto da due colpi di pistola alla testa. Una vera e propria esecuzione.
Quei due sicari oggi hanno un nome e cognome, in quanto uno dei due ha deciso di passare dalla parte dello Stato nel 2020. Si tratta di Antonio Rivieccio detto Cocò, affiliato al clan Sibillo di Forcella per conto del quale ha partecipato a diversi delitti eccellenti avvenuti nell’area orientale di Napoli, come l’omicidio Colonna-Cepparulo. In quella circostanza, Rivieccio entrò in azione insieme a Michele Minichini, quest’ultimo sparò a Raffaele Cepparulo, boss dei Barbudos, unico obiettivo dell’agguato, mentre Rivieccio sparò all’innocente Ciro Colonna.
Per sua stessa ammissione, Rivieccio ha partecipato insieme a Michele Minichini anche all’omicidio di Mario Volpicelli. In un verbale risalente al 10 marzo del 2020, nell’indicare ai magistrati il circoletto in cui abitava Michele Minichini in via Figurelle a Barra, Rivieccio specifica che la sera in cui entrarono in azione per uccidere il cognato dei Sarno, nonchè zio di Gennaro Volpicelli, partirono proprio da lì.
Già condannato all’ergastolo in via definitiva, insieme a Michele Minichini e agli altri affiliati che a vario titolo parteciparono all’omicidio Colonna-Cepparulo, Rivieccio si è autoaccusato di un omicidio pesante, in quanto quella sera di gennaio fu assassinato un uomo estraneo alle dinamiche camorristiche, pur consapevole che quell’ammissione di colpa probabilmente gli costerà un altro ergastolo.
Determinanti per far luce su questo ed altri delitti ancora irrisolti, le dichiarazioni degli altri collaboratori, in primis quelle di Tommaso Schisa, più che ben informato su quei fatti, alle quali potrebbero già essersi aggiunte quelle di altri pentiti eccellenti.