Un omicidio annunciato quello di Vincenzo Costanzo, il 26enne ucciso la notte scorsa a Napoli, in quello che presenta tutte le caratteristiche di un agguato di matrice camorristica, messo a segno nel corso dei festeggiamenti per la vittoria del terzo scudetto del club azzurro.
Nei giorni scorsi, infatti, il nostro giornale aveva pubblicato un articolo in cui ricostruiva lo scenario camorristico che attualmente si rileva nel rione Conocal di Ponticelli, tornato in auge dopo un lungo periodo trascorso in sordina, anche grazie ad una clamorosa alleanza con i De Micco-De Martino.
Clamorosa perchè quest’ultima organizzazione ha conquistato la leadership camorristica di Ponticelli mettendo la firma sua una serie di delitti eccellenti, uno su tutti, quello della donna-boss Annunziata D’Amico, sorella di Giuseppe e Antonio, fondatori dell’omonimo clan dai quali ha ereditato il ruolo di reggente in seguito ai loro arresti. Un omicidio che fin da subito gli uomini di casa D’Amico hanno giurato di vendicare, a patto che fosse un uomo nelle cui vene scorre il sangue dei D’Amico a mettere la firma sull’agognato regolamento di conti.
Per la famiglia/clan D’Amico l’onore è tutto: una premessa imprescindibile dalla quale partire per far luce sulle dinamiche che hanno portato all’assassinio di Costanzo.
Poco dopo la pubblicazione di quell’articolo, nel corso della serata di mercoledì 26 aprile, una delle cinque figlie del boss Antonio D’Amico ha contattato la direttrice di Napolitan.it, la giornalista Luciana Esposito, chiedendo espressamente di divulgare un messaggio chiaro, precisando inoltre di parlare anche a nome del padre detenuto: la famiglia D’Amico non potrà mai stringere un’alleanza con gli assassini di sua zia, pur confermando il ruolo di reggente del clan di suo cugino Vincenzo Costanzo, ucciso poche ore fa.
Una dissociazione esplicita e invocata anche con una certa fretta “pubblica stasera”, a riprova dell’impellente necessità di prendere le distanze da quelle dinamiche e da quelle persone.
La D’Amico ha fatto leva su un concetto ben preciso: Vincenzo Costanzo “aveva un altro cognome”. Un principio che nel gergo camorristico significa tanto.
Contestualmente al blitz che nel giugno del 2016 decapitò il clan D’Amico facendo scattare le manette per circa 100 persone, Vincenzo Costanzo, poco più che maggiorenne, fu chiamato a vestire i panni del ras, in quanto unico parente dei D’Amico rimasto a piede libero in grado di poter limitare i danni e preservare gli affari necessari per garantire il mantenimento dei detenuti e soprattutto evitare che il Parco Conocal, il fortino dei cosiddetti “fraulella”, venisse invaso da altri clan.
Di lì a poco, in verità, per espresso volere dei De Luca Bossa, nel Conocal si insediarono gli Aprea di Barra, perno portante dell’alleanza che riuscì a decretare la temporanea uscita di scena dei De Micco a Ponticelli. Un evento mal recepito da Costanzo che però non disponeva della forza camorristica necessaria per contrastare le imposizioni dei clan alleati.
Uno scenario mutato anche e soprattutto grazie ai recenti matrimoni di due delle figlie del boss Antonio D’Amico con due giovani cresciuti sotto l’ala protettrice dei De Micco. Un legame che ha favorito la fusione tra il nuovo clan D’Amico e i leader di Ponticelli, così come confermano le foto che spopolano sui social e che ritraggono Costanzo, in compagnia dei mariti delle cugine e di altri giovani elementi di spicco del clan De Micco-De Martino.
Un’immagine dalla quale la famiglia D’Amico ha voluto prendere le distanze, palesando in questo modo tutto il disappunto per le gesta di cui Costanzo si è fatto promotore. Il suo compito era quello di preservare il fortino dei D’Amico, onorare e rispettare la famiglia, ripagando con i fatti quell’atto di fiducia: un’opportunità fallita e sbeffeggiata, per giunta marcando le piste da ballo insieme ai giovani affiliati al clan al quale i fraulella hanno giurato guerra eterna.
Vincenzo Costanzo era stato chiamato a “portare il cognome” dei D’Amico, ovvero, a farne le veci nel contesto malavitoso, oltre che a curare e preservare gli interessi criminali del clan. Motivo per il quale quella accorata richiesta di non associare quel cognome alle gesta di Costanzo da parte di una delle figlie del boss fondatore della stessa cosca, avvenuta per giunta a pochi giorni dall’omicidio del cugino 26enne, assume un significato ben preciso e pesantissimo.
“Ciuculill”, questo il soprannome di Costanzo, era stato condannato a morte e l’isolamento, in certi casi, soprattutto nei contesti malavitosi, è il primo passo che introduce il delitto. In quest’ottica dalla dissociazione dei D’Amico, maturata alla vigilia dell’omicidio del 26enne, trapela la consapevole volontà di gettarlo in pasto a quel destino. Nel gergo camorristico questa condotta viene indicata con una dicitura assai incisiva: “lo hanno buttato”. Se ne sono disfatti, non potendo più servirsi di lui. Non potendo tollerare che per via di quel vincolo di parentela il cognome dei D’Amico venisse associato a lui, ma probabilmente anche per un altro motivo.
Come precisato nell’articolo pubblicato lo scorso 26 aprile, secondo quanto riferito dagli abitanti del rione Conocal, negli ultimi tempi Costanzo era solito mostrarsi in visibile stato di alterazione, complice l’uso spropositato di sostanze stupefacenti. Aveva iniziato a drogarsi pesantemente e questo concorreva a renderlo inaffidabile.
Vincenzo Costanzo doveva essere ucciso: il tribunale della camorra aveva decretato questo verdetto già da qualche giorno e ha scelto “la sera più furba” per entrare in azione. Nel marasma dei festeggiamenti per la vittoria dello scudetto poteva succedere di tutto e questo la camorra lo aveva ben messo in conto, ma troppi fatti oggettivi confermano che non si è trattato di una “sciagura”, in primis la mole di colpi di pistola che lo hanno raggiunto alle gambe e al torace.