Il tribunale di Napoli ha condannato a un anno e 2 mesi Giuseppe Cirella e Mariarosaria Amato, la coppia di coniugi che nel dicembre del 2015 aggredì la giornalista Luciana Esposito, direttore del giornale online “Napolitan”.
10 mesi per Carmela Cirella, la primogenita della coppia che quando aggredì la giornalista era incinta.
Una sequenza di violenza maturata nel Parco Merola di Ponticelli, oggi noto come “Parco dei murales”, per effetto delle 8 opere di street art realizzate in quella sede.
Una condanna giunta al termine di un processo lungo sei anni, nel corso dei quali, fin dalle prime battute, si sono create due fazioni distinte e distanti: quelli che erano dalla parte della giornalista e quelli che peroravano la causa dei suoi aggressori.
Tra i ranghi di quest’ultima compagine, non si annoverano solo gli esponenti della malavita della periferia orientale di Napoli, ma anche un nutrito gruppo di giornalisti ed esponenti di associazioni anticamorra. Tutti fortemente convinti che sostenere la causa dei coniugi Cirella fosse cosa “buona e giusta”.
I Cirella hanno legittimato quell’atto violento spiegando che “la giornalista” mirava ad insidiare l’armonia della famiglia, cercando a tutti i costi di intrattenere una relazione extraconiugale con Giuseppe Cirella, pregiudicato e fratello dell’ex macellaio del clan Sarno, Raffaele Cirella, oggi collaboratore di giustizia.
Fin dal primo istante “dalla parte della giornalista”, il Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che si sono anche costituiti parte civile nel processo partito nel giugno del 2016 e che pertanto beneficeranno di un risarcimento del danno, perché hanno rivendicato con forza e fermezza in quella sede che l’aggressione subita dalla giornalista Luciana Esposito ha arrecato un danno all’immagine dell’intera categoria, oltre che ai cittadini, privati del diritto di essere informati.
Il movente emerso in sede processuale, grazie alla ricostruzione del pubblico ministero e soprattutto alle plurime prove documentali prodotte dall’avvocato Emilia Granata, difensore della giornalista, delinea uno scenario ben diverso da quello millantato dagli imputati.
Luciana Esposito è entrata per la prima volta nel Parco Merola di Ponticelli nell’estate del 2015, contestualmente all’avvio della prima opera di street art. Da quel giorno ha speso gran parte del suo tempo ad occuparsi del degrado dilagante in quel rione, perché trovava inaccettabile e paradossale che il comune di Napoli spendesse migliaia di euro per abbellire le pareti di un contesto fatiscente ed abbandonato a sé stesso da oltre un ventennio.
Prende così il via il processo di riqualifica del parco Merola, grazie al riflettore acceso dalla giornalista che riesce ad attirare l’attenzione del comune di Napoli, il quale s’impegna ad affiancare un intervento di manutenzione ordinaria ad ogni opera di street art eseguita in quella sede.
Una riqualifica che coinvolge ed appassiona gli abitanti del parco Merola che si sentono sempre più legittimati a sognare una vita migliore e più dignitosa.
Un riflettore perennemente acceso che infastidisce chi, invece, necessita di un clima discreto ed anonimo per agire in maniera indisturbata.
Il 10 ottobre del 2015, nel Rione Conocal di Ponticelli, veniva uccisa la donna-boss Annunziata D’Amico, reggente dell’omonimo clan e cognata di Mariarosaria Amato la quale, approfittando dell’assenza del marito, forniva alla giornalista una serie di informazioni riservate in relazione all’omicidio e alle strategie impartite dai fratelli della defunta boss per replicare al durissimo colpo subito.
Non appena quelle informazioni vengono pubblicate e diventano di dominio pubblico, la famiglia D’Amico avvia “la caccia all’infame”: la giornalista inizia a ricevere messaggi in cui i congiunti della donna-boss uccisa le chiedono con insistenza di conoscere l’identità di quella fonte, consapevoli del fatto che tra loro ci fosse “una spia”, un familiare “chiacchierone” che aveva spifferato notizie che dovevano rimanere riservate.
In questo clima di astio, malcontento e rabbia matura l’aggressione ai danni della giornalista.
La mattina del 21 dicembre 2015, contestualmente all’avvio del quarto murales realizzato nel Parco Merola, Luciana Esposito si reca lì per documentare quell’opera, come aveva fatto con le altre tre, ignara del destino al quale stesse andando incontro.
Picchiata prima dal marito e poi dalla moglie.
Fin dai primi istanti successivi all’aggressione, i referenti territoriali della più nota associazione anticamorra hanno perorato la causa dei coniugi Cirella, arrivando finanche a giustificare l’episodio di violenza subito dalla Esposito.
Ci sono voluti sei lunghi anni per stabilire la verità. Anni in cui gli stessi soggetti hanno tenuto perfino comizi in pubblica piazza in cui schernivano il lavoro della giornalista, invitando i civili a prendere le distanze dal suo lavoro e a non darle credito. Un tentativo di delegittimazione e di isolamento che ha viaggiato di pari passo con le minacce che la giornalista ha continuato a subire da parte degli esponenti della malavita locale.
Al contempo, gli abitanti onesti del quartiere, stanchi di vivere nell’oblio generato dal connubio tra camorra ed assenza delle istituzioni, non hanno mai smesso di supportare il lavoro della giornalista, al pari del sindacato di categoria e di moltissime altre persone che, pur vivendo in realtà lontane e più comode, hanno iniziato a condividere il sogno di vedere, un giorno, Ponticelli liberata dalla morsa della camorra.
La condanna agli artefici di quell’aggressione rappresenta il lieto epilogo che meritavano tutti quelli che in questi anni si sono schierati dalla parte giusta: contro la camorra, a tutela della libertà d’informazione.