3 luglio 1983: una data che riconduce ad uno degli infanticidi più efferati della storia italiana. I cadaveri di Barbara Sellini di 7 anni e Nunzia Munizzi di 10 anni furono ritrovati sovrapposti e gettati in un canale, tra le sterpaglie, poco distante dal luogo in cui erano scomparse: il rione Incis di Ponticelli.
Ciro Imperante, Luigi Schiavo, Giuseppe La Rocca: i tre ragazzi accusati di essere gli autori del massacro, furono condannati in tempi record, nel 1987. Dopo solo quindici mesi, si conclusero i tre gradi di giudizio e i tre vennero trasferiti presso la casa di reclusione di Maiano a Spoleto.
Proprio tra le mura del carcere matura l’anomalia più clamorosa che getta un fitto velo di dubbio sull’effettiva colpevolezza dei tre ragazzi che durante l’intero periodo di detenzione hanno beneficiato della solidarietà dei camorristi detenuti. Un autentico paradosso, se si pensa che in quegli anni il codice d’onore della camorra imponeva la pena di morte per pedofili ed autori di infanticidi. Così come conferma l’omicidio del presunto assassino della piccola Raffaella Esposito, una 13enne assassinata nel vesuviano nel 1981, appena due anni prima delle due bambine di Ponticelli. Un omicidio rivendicato dalla NCO di Cutolo e che lo stesso boss di Ottaviano definì “un atto di giustizia”.
Proprio come accadde all’indomani dell’assassinio della 13enne, anche in seguito al duplice omicidio di Ponticelli gli emissari del boss Raffaele Cutolo iniziarono una serrata caccia al mostro, intenzionati a gettare in pasto all’opinione pubblica l’ennesimo “atto di giustizia” che avrebbe incrementato il consenso popolare intorno alla figura del boss della NCO.
Un dettaglio riscontrato anche nel corso dell’audizione voluta dalla Commissione Parlamentare Antimafia per esaminare gli indizi a carico dei tre e valutare se vi fossero gli elementi a supporto di una revisione del processo. Uno dei tre condannati, Giuseppe La Rocca, ha riferito alla Commissione che durante i primi tempi di permanenza in carcere fu avvicinato da un emissario di Raffaele Cutolo, che gli riferì che erano state compiute delle «indagini parallele» sul loro caso, oltre che una riunione dei vertici della nuova camorra organizzata la quale aveva decretato la loro innocenza.
«Per quanto riguarda la camorra, avevamo capito che c’era qualcosa di strano.
I camorristi in carcere ci salutavano. Nessuno ci diceva niente di male; incontrai addirittura il camorrista Pasquale Galasso nel carcere di Fuorni, quando andai a dare l’ultimo saluto a mio zio che stava per morire. Pasquale Galasso venne alla mia cella e, dandomi la mano, mi disse di stare tranquilli, che non ci avrebbe toccato nessuno, perché sapevano che eravamo innocenti. Questo, però, fu un caso. Facendo invece un passo indietro, nel carcere di Maiano, un giorno venne vicino alla cella uno, non sapevo neanche chi fosse, il quale mi disse che lo mandava don Raffaele Cutolo, il quale voleva sapessimo che era stata fatta una riunione tra camorristi per decidere se noi dovessimo morire o campare. In base alla loro indagine, questo è quello che mi è stato detto e che ripeto, noi eravamo innocenti e nessuno doveva toccarci in carcere. Disse quindi: ha detto don Raffaele Cutolo di stare tranquilli; nessuno vi toccherà. Effettivamente, in tutti questi anni non ho mai preso uno schiaffo, in carcere e neanche fuori, quando sappiamo che, se uno entra in un carcere per una semplice violenza carnale, se la vede brutta».
Nella casa di reclusione di Maiano i tre condannati vennero impegnati in qualità di lavoranti e avendo possibilità di attraversare o lavorare presso le altre sezioni del carcere, incontrarono Ciro Sarno detto o’ sindaco, il boss che subentrò nel controllo del quartiere Ponticelli a Raffaele Cutolo, ereditando anche i gregari che sul territorio erano espressione della NCO, tra i quali anche coloro che personalmente avviarono le indagini finalizzate a stanare il colpevole dell’assassinio delle bambine.
«Ciro Sarno, che noi abbiamo incontrato nel carcere di Maiano e che adesso so essere un collaboratore di giustizia, era il boss di Ponticelli, dove sono state uccise le bambine; – ha dichiarato ancora alla Commissione La Rocca – comandava tutta quella zona. Ciro Sarno è uno di quelli che ci ha sempre protetto, in ogni maniera. Non lo so perché, non ve lo so dire. Vi so dire che, effettivamente, noi siamo stati protetti. Siamo stati graziati. Non ho avuto un solo schiaffo, né io, né gli altri due, ma, anzi, un grandissimo rispetto».
Giuseppe La Rocca ha affermato, inoltre, che durante un breve periodo di permanenza presso il carcere di Fuorni (SA), fu avvicinato da Pasquale Galasso, uno tra i più noti capi della camorra e poi tra i più importanti collaboratori di giustizia, che gli disse «di stare tranquilli, che non ci avrebbe toccato nessuno, perché sapevano che eravamo innocenti».
«C’era anche un camorrista, Andrea Delli Paoli, con il quale avevamo fatto amicizia, visto che non c’era gente migliore. Anzi, in certi casi dovevi fare amicizia. Un giorno Delli Paoli fu chiamato dalla DIA; quando risalì, ci disse che sarebbe andato via: ragazzi, vi lascio perché mi devo pentire, perché mi stanno accusando di altri reati e a questo punto – ricordo ancora le parole che usò – scendo anch’io da questo treno. Però, voglio promettervi una cosa; dovunque io vada, se vengo a sapere qualcosa in merito al vostro caso o su ciò che è successo in quella caserma, vi prometto che vi scrivo. E così fu. Nel 1994 mi arrivò una
lettera in cui, in breve, si diceva: ciao ragazzi, sono Andrea Delli Paoli. Come vi avevo promesso all’epoca, sono venuto a conoscenza di alcuni fatti che possono riguardarvi. Qui davanti a me c’è un certo Ciro Starace (un altro camorrista), che dice di sapere tutto in merito a quello che è successo (…). Quindi, mettetevi in moto. Anch’io sono in possesso di alcune informazioni che vi possono essere utili».
Ciro Starace, elemento di spicco della nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, poi pentitosi secondo quanto sostenuto nella missiva di Delli Paoli, era a conoscenza di quanto accaduto all’interno della caserma Pastrengo, della condotta di un pentito, a seguito della quale una persona era stata costretta a fare i nomi dei ragazzi condannati. Ciro Starace faceva un esplicito riferimento alla vicenda di Enzo Tortora rappresentando, pertanto, un «filo rosso» che avrebbe legato le due vicende, in quanto dietro il quadro imbastito per accusare i tre ragazzi del massacro di Ponticelli, si celava la stessa regia della stessa persona che aveva fatto scoppiare il caso Tortora: Mario Incarnato.