Quando il labile, ma caparbio sole invernale si fa spazio tra le cupe nuvole per consentire all’alba dell’8 dicembre di sopraggiungere, almeno a Napoli, introduce ufficialmente il clima natalizio.
Quindi l’attesa, quell’attesa, peculiare ed inconfondibile, diversamente condita ed intrisa di emozioni, aspettative, desideri, speranze, legata al Natale.
Quella abbagliata dalle luci dei panciuti ed agghindati alberi che si affacciano dalle finestre.
Quella salutata da immortali pastori che, nonostante giungano per partecipare all’ennesimo Natale con un braccio, una mano o un piede monco, sono ancora lì, anche quest’anno, per ricoprire il loro più o meno rilevante ruolo di comparsa, all’interno di quel mosaico di tradizione e sughero che troneggia in ogni casa.
Quella frastornata dalla lancinante incertezza che pericolosamente irriga il conto in banca di chi stanzia nei gradini più bassi di quelle accorte e minuziose classifiche stillate ad arte da chi, puntualmente, si prende la briga di propinarci medie e statistiche riguardanti le cifre che ciascuna famiglia si accinge a spendere per “santificare le feste”.
Quella di un’infeltrita e vistosa decorazione da appendere sulla soglia della porta, perché lo fanno tutti e quindi è cosa buona e giusta mascherare ogni meandro delle case, degli uffici, dei negozi, del cuore, con quel marcato e vistoso “spirito natalizio”.
Quella acerba ed inconsapevole dei bambini che, con la loro tremolante ed ingenua grafia, impiegano ore ed ore per sporcare d’inchiostro i loro sogni ed impacchettarli in una missiva, destinata a non essere mai spedita, perché diretta a quel Babbo Natale che, quando uscirà di scena, sancirà il sopraggiungere del loro “essere diventati adulti”.
Quella che si traveste da riflettore acceso sulla solitudine di chi non ha niente né nessuno con cui condividere la gioia che imperversa durante questo periodo dell’anno e, pertanto, quel tripudio di rosso, luci e melodie demenziali, funge da cassa di risonanza per quello straziante vuoto con il quale, quotidianamente, convive.
Quella che si tramuta in artificiosa ed innaturale maschera sui volti di chi soffre e che, pertanto, si sente in dovere di cucirsi sulle labbra un sorriso, seppur beffardo e menzognero, per non assumere il ruolo scomodo di “nota stonata” su quello spartito che, all’unisono, deve armonicamente irradiare pace, amore, solidarietà e serenità.
Quella enfatizzata dalla “buona azione di circostanza”, compiuta in maniera forzata, ma non sentita, solo per “rispettare” il rituale ideologico ed emotivo che accompagna, introduce e contraddistingue queste festività.
Quella compulsivamente gremita da frenesia e caos, perché, anche se non è lecito conoscerne la motivazione, durante le feste hanno tutti un grande e snervante fretta.
Quella che legittima gli ipocriti sentimentalismi e ad inscenare il “festival delle frasi ad effetto e degli auguri di circostanza” per dimostrare ed ostentare il nostro “essere migliori” a tutti, proprio a tutti, anche a coloro che sinceramente disprezziamo nella consueta “vita reale”.
Quella beffata dal consumismo che obbliga a comprare regali, difficilmente scelti con criterio e, pertanto, destinati ad essere accolti con fallace entusiasmo per poi trascorrere il resto dei loro giorni staticamente riposti in un remoto e dimenticato meandro dell’armadio, prima di essere ingegnosamente riciclati con il medesimo, scaltro e tutt’alto che amorevole cinismo, alla prima occasione utile.
Quella di un disoccupato travestito da Babbo Natale che si sente legittimato a nascondere la vergogna di essere costretto a chiedere l’elemosina, dietro una canuta e folta barba.
Quella avvolta dalla cecità di chi non si avvede che il bambino che sta per nascere rischia di morire assiderato, perché il bue e l’asinello, Maria e Giuseppe, se li sono cucinati alla brace, per non morire di fame.
Quell’attesa che, in questo momento storico, dovrebbe imporre di chiedersi: cosa stiamo aspettando?