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“Massacro di Ponticelli”: la Commissione Antimafia contesta la colpevolezza dei ragazzi e auspica la revisione del processo

Luciana Esposito di Luciana Esposito
20 Gennaio, 2023
in Cronaca, In evidenza
0
3 luglio 1983, il massacro delle bimbe a Ponticelli: parla la criminologa che non ha mai smesso di cercare la verità
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Tornano ad accendersi i riflettori sul duplice omicidio di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, le due bambine di 7 e 10 anni, seviziate ed uccise a Ponticelli il 2 luglio del 1983. Per quel duplice efferato delitto furono condannati all’ergastolo Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante, tre ventenni incensurati. Una condanna maturata in totale assenza di prove concrete e giunta al culmine di indagini compiute in circostanze che tuttora sono oggetto di dibattito.

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Il caso, sottoposto alla Commissione Antimafia nei mesi scorsi, è stato esposto nel corso di una conferenza stampa svoltasi a Roma lo scorso 19 gennaio. Oltre alla deputata Stefania Ascari prima, firmataria della relazione sul massacro approvata all’unanimità dalla Commissione Antimafia a settembre, allo scadere della scorsa legislatura, sono intervenuti i tre ragazzi condannati per il duplice delitto, la criminologa Luisa D’Aniello e l’investigatore Giacomo Morandi che hanno ricostruito il ruolo ricoperto dalla camorra nella vicenda.

Determinanti il ruolo assunto dai pentiti coinvolti nella vicenda e che a distanza di 40 anni, impongono un’analisi più approfondita dei fatti per accertare l’effettiva realtà dei fatti. Una premessa che scaturisce da un dato di fatto cruciale: negli anni in cui la figura del collaboratore di giustizia non beneficiava dei privilegi, soprattutto economici, di cui poi si è fatto carico lo Stato, i pentiti erano soliti vendersi al migliore offerente e non di rado, si sono rivelati capaci di accusare di omicidi ed altri reati gravi, persone innocenti, sotto retribuzione dei reali colpevoli.

L’intera vicenda è stata rilanciata di recente da “Le Iene”, il programma di Italia 1. Intervistati da Giulio Golia, i tre ragazzi, ormai diventati uomini, dopo aver trascorso circa trent’anni in carcere, hanno parlato per la prima volta davanti ad una telecamera rendendo dichiarazioni analoghe a quelle esposte alla commissione nel corso delle audizioni e durante la conferenza stampa svoltasi di recente. Nella relazione della commissione si legge che “i tre condannati hanno dichiarato di aver subito percosse da soggetti in borghese”. Un fatto ribadito da Luigi Schiavo: “Mi hanno torturato, fatto girare sulla sedia per disorientarmi, dato da bere acqua e sale, colpito con un frustino per cavalli”.

I tre ragazzi continuano a professarsi innocenti e raccontano di aver subìto brutali torture all’interno della caserma Pastrengo, dove furono condotti insieme ad altri assidui frequentatori del Rione Incis di Ponticelli, il luogo nel quale vivevano le due bambine ed erano solite intrattenersi a giocare. Proprio da lì, Barbara e Nunzia, si allontanarono non facendo più ritorno a casa.

Una delle tante anomalie che ha concorso a gettare dubbi sull’attendibilità del verdetto emesso dai giudici va riscontrata nella protezione di cui i tre ragazzi hanno beneficiato in carcere da parte della camorra.

In quegli anni, infatti, la NCO del boss Raffaele Cutolo – egemone anche a Ponticelli – prevedeva la condanna a morte per i pedofili e gli autori di infanticidi. Basta ricordare che pochi anni prima, nel comune napoletano di Somma Vesuviana, al confine con Ottaviano, il presunto assassino di Raffaella Esposito, una 13enne scomparsa all’uscita di scuola e poi trovata morta pochi mesi dopo, fu assassinato e il delitto fu rivendicato proprio dalla cosca facente capo al boss di Ottaviano.

A riprova della politica intransigente imposta da Cutolo, nei mesi in cui spaziavano a tutto campo le ricerche della 13enne scomparsa, alla redazione del quotidiano “Il Mattino” giunse una lettera dai contenuti espliciti: “Noi uomini di Cutolo non ammettiamo che si tocchino i bambini. Liberate la piccola, sennò pagherete”.

Un ultimatum che non sortisce effetto, in quanto della piccola Raffaella non si hanno notizie per svariate settimane. Il 13 marzo di quello stesso anno, esattamente due mesi dopo la sparizione della 13enne, il suo cadavere viene ritrovato in un pozzo ad Ottaviano, proprio nel comune-simbolo dell’egemonia del boss Raffaele Cutolo.

Così come comprova lo stralcio di questa intervista che Raffaele Cutolo rilasciò mentre era in tribunale per sostenere un processo da imputato, ‘o professore ha sempre ammesso nitidamente di essere il mandante dell’omicidio dell’assassino della 13enne, giustificandolo come “un atto di giustizia”.

Un elemento che stride pesantemente con la mancata esecuzione dei tre ragazzi.

Così come trapela dalle pagine della relazione depositata dalla Commissione Antimafia sul “Massacro di Ponticelli”, diversi collaboratori di giustizia, nel corso degli anni, hanno avvicinato i tre ragazzi mentre erano in carcere per rassicurarli e perfino per manifestargli solidarietà.

Alcuni emissari di Cutolo, infatti, spiegarono ai ragazzi che a margine di una riunione tra i vertici della NCO fu stabilita la loro innocenza e pertanto fu diramato l’ordine di non torcergli nemmeno un capello, consapevoli della di per sé dolorosa condizione in cui si vedevano costretti a vivere, scontando una pena definitiva in carcere, seppure estranei ai fatti che gli venivano contestati.

Tra gli ex camorristi ancora in vita e informati sui fatti avvenuti 40 anni fa, spicca il nome di Ciro Sarno, ex boss di Ponticelli che subentrò a Cutolo dominando la scena malavitosa per circa 30 anni in quella fetta di Napoli, e che oggi è un collaboratore di giustizia. I tre ragazzi incontrarono Ciro Sarno in carcere, quando era il boss del quartiere in cui si era consumato il duplice delitto, ricevendo solidarietà e rassicurazioni anche da lui.

Il ruolo ricoperto dalla camorra nell’accertare la verità giungendo a stanare il colpevole per gettarlo in pasto alla giustizia terrena, stride pesantemente con le gesta dei collaboratori di giustizia dell’epoca, uno su tutti Mario Incarnato, il “regista” dell’impianto accusatorio imbastito a suon di dichiarazioni rese e poi ritrattate dai testimoni. All’epoca del duplice delitto, Mario Incarnato era già un pentito ed era solito frequentare la caserma Pastrengo, dopo un passato da affiliato alla NCO di Cutolo, nonchè referente ponticellese del boss di Ottaviano.

Una serie di elementi che ben spiegano il coinvolgimento della camorra, su un fronte impegnata a stanare “il mostro” per giustiziarlo, su un altro capace di inscenare un depistaggio che a distanza di 40 anni, emerge vistosamente tra il fitto elenco di prove che scagionano i tre ragazzi da ogni accusa.

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