“Il commercio napoletano è in ginocchio, un dato su tutti fotografa la gravità della situazione: negli ultimi sei mesi hanno chiuso più di duemila negozi e circa 600 bar e ristoranti a Napoli e provincia“. Lo ha detto Pietro Russo, presidente di Confcommercio Imprese per l’Italia della Provincia di Napoli, nel corso dell’Assemblea dell’associazione napoletana.
Netto il calo delle vendite, in alcuni settori, come l’abbigliamento, arrivato anche al 50%.
Beh, non risulta difficile rilevare quanto questa statistica trovi certo e solido riscontro nell’ordinaria realtà.
Camminando per le strade della città, tra le rinomate “vie dello shopping” partenopeo, ma anche tra i più sommessi ed affollati vicoli pregni di negozi “popolari”, il risultato non cambia.
Il commercio è sopraffatto dalla crisi.
La crisi è la polvere che avvolge la disperata inerzia degli oggetti esposti nelle vetrine che, con il susseguirsi di ore, giorni, settimane, mesi rimangono disperatamente immobili, mentre abbracciano cartellini sempre più piccoli e tristi, sempre più a snelliti di zeri e dignità.
La crisi è una carovana di corpi che costeggia la soglia dell’ingresso di un negozio, all’interno del quale vi è seduta la solitaria preoccupazione di non riuscire più a “fare il commercio”.
La crisi è alzare ogni mattina una saracinesca che, di giorno in giorno, diventa sempre più pesante ed ancor più difficile da sostenere è l’onere della disperazione che gronda da quelle lamiere di ferro e da quei mattoni di precaria vicissitudine.
La crisi è il protrarsi di un indomabile silenzio lungo i meandri di un’intera giornata, quello che rischia di condurre alla pazzia un’anima costretta a respirare quell’asfissiante aria di sacrificata privazione.
La crisi è un vicolo cieco di disperazione dal quale è difficile intravedere uno rassicurante spiraglio di luce.