Un gioiello unico dell’architettura settecentesca, fulgido esempio di quell’imparagonabile spaccato storico in cui la bellezza dei paesaggi, la cultura vivida e la maestosità delle ville attiravano turisti e giovani artisti in formazione, la Villa Pignatelli di Montecalvo, oggi è purtroppo solo un rudere fatiscente, vittima dell’incuria e del tempo.
La Villa Pignatelli di Montecalvo a San Giorgio a Cremano tra tutte le ville e i palazzi del Miglio d’oro, è il complesso più prossimo alla scomparsa. Dopo aver resistito a 250 anni di storia duosiciliana, savoiarda, fascista e repubblicana, ad eruzioni catastrofiche, a movimenti tellurici, a due guerre mondiali, a una buona varietà di epidemie e allo spopolamento postindustriale, non è mai stata così tanto vicina come adesso al cedimento strutturale.
Salendo dal mare fino a largo Arso, sul lato sinistro, il passante ignaro viene informato da un cartello che si tratta della famosa villa Pignatelli di Montecalvo. Ci vuole molta immaginazione per riconoscere la villa vesuviana del ‘700 unica nel suo genere; ci si può aiutare solo osservando i disegni d’epoca e conoscendone un po’ la storia, per quanto oggi è fatiscente. Gli stucchi sono quasi scomparsi, sostituiti da ciuffi d’erba di muro, e qualche apertura recente (e abusiva) fa occhiolino qua e là.
La villa fu fatta edificare nel 1747 dalla principessa Emanuella Caracciolo Pignatelli duchessa di Montecalvo che, fortemente legata alla città, acquistò una tenuta che si estendeva per quattro ettari.
Il progetto originario della villa venne erroneamente attribuito, a Ferdinando Sanfelice. Dopo ulteriori studi, si è scoperto che è dovuto ad un geniale per quanto oscuro architetto, Girolamo Molino.
Il Molino progettò e diresse i lavori questa dimora principesca dal 1741 al 1747. La fabbrica della villa durò a lungo perché ci furono controversie tra il capocantiere e la principessa Emanuella; la responsabilità delle inadempienze contrattuali alla fine ricadde sulle spalle del bravo architetto Molino, se non altro in termini di credibilità professionale. Dal 1747 al 1765 il proseguimento dei lavori fu affidato a frà Giacinto da Foggia, che diresse i lavori rispettando il progetto originale del Molino; nel cantiere, la fabbrica fu curata dal maestro Crescenzo Cozzolino di Resina e gli stucchi dal maestro Marcantonio Ferraro di Torre del Greco.
L’ingresso principale dell’edificio, posto ad angolo con via Botteghelle, si apre su largo Arso, così chiamato perché coperto dalla lava durante l’eruzione del Vesuvio del 1631. Robustamente costruita in tufo, presenta un monumentale portale in pietra lavica con bugne a punta di diamante.
L’edificio presenta uno schema planimetrico a forma di “U” con un atrio centrale a pianta ellittica; al centro della volta si trova una metopa, cioè una formella in pietra, con le iniziali E.M. ( iniziali del secondo proprietario, Emiddio Mele ), scolpite in rilievo.
Dall’atrio, corredato da panchine di piperno, si dipartono due scaloni rococò d’accesso al piano nobile della stessa pietra vesuviana che, grazie all’abilità della mano dello scalpellino, presentano una serie di fregi e volute delicati e leggeri. La forma data a questi scaloni è svasata verso il basso e volutamente ricorda un fiume di lava vulcanica.
Al piano nobile, corrisponde all’atrio un salone ellittico sormontato da una cupola che sporge all’esterno della fabbrica. Altre due scale, sebbene siano di grande effetto, sono un’aggiunta ottocentesca, create con funzione di sbocco ai terrazzi panoramici.
Dal cortile posteriore lo sguardo d’insieme della fabbrica aveva una connotazione assai suggestiva: le logge, le arcate, i porticati e le terrazze producevano un notevole effetto scenografico, tipico del barocco napoletano. Nelle due ali, basse e sormontate da giardini pensili, trovavano posto gli alloggi dei domestici, le stalle, le rimesse per le carrozze, un macello e la chiesa. La cappella gentilizia, dedicata alla Madonna Immacolata, con un meraviglioso pavimento di maioliche, era corredo indispensabile alle dimore settecentesche, dal momento che Carlo III di Borbone, religiosissimo, quasi pretendeva che ogni casino di villeggiatura ne avesse una.
Nel caso della principessa Pignatelli, non fu certo un’imposizione, perché era pervasa anch’essa da un forte sentimento religioso, tanto che donò alla città la statua del Patrono San Giorgio, che oggi si trova nella Chiesa di Santa Maria del Principio.
Questo è ciò che era Villa Pignatelli di Montecalvo; oggi, invece, è praticamente un rudere puntellato per la messa in sicurezza. Gli stucchi sono quasi interamente scomparsi; sul portone si vede ancora lo stemma della famiglia, riposizionato nel 1959 dopo che per vario tempo era stato abbandonato in un angolo dell’atrio. La chiesetta è diventata un garage dove le macchine poggiano sul pavimento di maioliche; il palazzo è in parte disabitato, in parte occupato. L’atrio centrale è diventato un ventre vuoto dove il vento spinge cartacce e l’inciviltà della gente immondizia; l’apertura posteriore conduce ad uno spazio aperto destinato a parcheggio, e non c’è più una foglia verde, semmai erbacce.
Curiosità
Villa Pignatelli di Montecalvo è stata spesso utilizzata come set cinematografico. Nel 1992 nelle sue sale furono girate alcune scene del film di Lina Vertmüller con Paolo Villaggio “Io speriamo che me la cavo“. Nel 2011 la villa è stata utilizzata come location anche dal regista Matteo Garrone per le riprese del suo film Reality (nella finzione, vi abita il protagonista).
La villa è famosa anche perché qui abitava una delle prime vittime dell’ondata di colera del 1973 a Napoli, la piccola Francesca Noviello di soli 18 mesi. Dopo la diffusione della notizia del contagio, tutta la famiglia Noviello venne messa al bando da San Giorgio a Cremano e anche il parroco per timore del contagio celebrò i funerali della piccola con una mascherina sul viso.