È un quadro allarmante quello che emerge dalle indagini che in meno di sei mesi hanno concorso a far luce sulla tentata rapina che lo scorso marzo ha ridotto in fin di vita un ingegnere di 32 anni, mentre era fermo a un distributore di carburanti in via Reggia di Portici, nel quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio, a bordo del suo scooter.
Lo scenario è quello del parco Conocal di Ponticelli, fortino del clan D’Amico, quello delle immagini delle ‘stese’ in pieno giorno e della “camorra al femminile” che gestiva decine di piazze di droga, indottrinando giovanissime reclute. Un rione che da qualche tempo sta facendo registrare diverse fibrillazioni, adibito a quartier generale della banda di rapinatori seriali della quale faceva parte anche il 17enne tratto in arresto e gravemente indiziato dei reati di tentato omicidio aggravato, tentata rapina aggravata, porto abusivo di arma da fuoco in luogo pubblico e ricettazione.
I due rapinatori entrati in azione lo scorso marzo per cercare di sottrarre lo scooter al 32enne sotto la minaccia di una pistola, viaggiavano a bordo di un ciclomotore rubato a Cercola pochi giorni prima, da due soggetti con lo stesso modus operandi.
La vittima era stata affiancata da due soggetti a bordo di uno scooter con targa coperta, armati di pistola e con i volti travisati da passamontagna.
Pochi giorni dopo la rapina avvenuta a Cercola, la vittima era stata contattata prima su Messenger e poi su WhatsApp da un soggetto che gli segnalava di cercare il suo scooter proprio nel Conocal, in via al chiaro di luna, nei pressi di un palazzo adiacente al supermercato Jolly, zona in cui vivono le figure apicali del clan D’Amico e teatro dell’agguato andato in scena poco dopo la mezzanotte di lunedì 12 settembre nel giorno del 50esimo compleanno del boss Antonio D’Amico, il fondatore dell’omonimo clan attualmente detenuto.
In effetti, i carabinieri di Ponticelli trovarono lo scooter rubato a Cercola e utilizzato per compiere la rapina sfociata nel tentato omicidio del 32enne, nel parco Conocal di Ponticelli nel vano scale di un edificio in via del flauto magico.
All’interno di una delle cantinole ubicate all’ultimo piano dello stesso edificio, invece, furono rinvenuti e sequestrati i capi d’abbigliamento utilizzati dai due rapinatori.
Sciarpe, scaldacollo, uno zaino, caschi. Il kit di indumenti e accessori che indossavano i due soggetti che avevano cercato sottrarre lo scooter all’ingegnere, così come confermato dalle immagini del sistema di videosorveglianza del distributore di carburanti.
Un’altra prova che ha concorso ad inchiodare il minore alle sue responsabilità è emersa dalla comparazione eseguita dal RACIS tra i proiettili rinvenuti sul luogo del tentato omicidio del 32enne dai carabinieri del Nucleo operativo di Poggioreale e quelli sequestrati lo scorso 19 aprile dai carabinieri della tenenza di Cercola presso l’abitazione del 17enne tratto in arresto poche ore fa.
Le intercettazioni telefoniche e ambientali, inoltre, hanno consentito agli inquirenti di ricostruire i dialoghi avvenuti nell’abitazione di un giovane imparentato ai D’Amico che ricopre un ruolo di primo ordine all’interno del clan di famiglia.
Un appartamento che il 17enne frequentava abitualmente in quanto adibito a quartier generale dalla banda di rapinatori seriali radicata nel Conocal, era proprio lì che avvenivano summit operativi e decisionali. In alcune intercettazioni captate, il 17enne aveva ammesso di pernottare in quella abitazione, a riprova di quanto fosse saldo il suo rapporto con il padrone di casa, al pari del ruolo ricoperto nel “nuovo clan D’Amico”, proprio in seguito alla migrazione nel Conocal della giovane paranza di cui faceva parte. Un gruppo di ragazzini, cresciuti nell’orbita del clan De Micco e poi confluiti nel clan D’Amico in seguito all’unione tra due elementi di spicco della paranza e le figlie del boss Antonio D’Amico.
Proprio dai dialoghi intercettati emergono i dettagli più inquietanti che lasciano intravedere il clima surreale che si respira tra le mura delle abitazioni delle figure di spicco del clan D’Amico.
Determinante “il tranello” teso dai poliziotti della Squadra Mobile di Napoli al minore e ai suoi amici per indurli a parlare di quella vicenda, affinché potessero ammettere il loro coinvolgimento in quella rapina che poteva sfociare in un omicidio. ‘La spinta’ fornita dall’input degli investigatori si è rivelata poi effettivamente efficace: le prime ammissioni sono emerse proprio in seguito alla visita di un agente che ha notificato un invito a presentarsi in Questura a un amico del 17enne.
“Noi già staremmo carcerati se stessimo facendo ancora le rapine, già avremmo sparato a sette di loro”. Afferma il 17enne, non appena il poliziotto lascia l’abitazione, ignaro di essere intercettato.
“Quello l’ha detto tu per un motorino spari a una persona”, gli fa notare l’interlocutore, riprendendo le parole pronunciate poco prima dal poliziotto. Inquietante la replica del 17enne: “eh, se la gente è scema”.
“Quelli sanno la verità”.
“Io non faccio più le rapine, ma le ho fatte.”
“Quello ha detto sei tu? Non ho la prova, non ho la prova per arrestarti. Lo sai perché ha voluto dire che non ha le prove? Quando ha detto: hai i vestiti addosso, ma che sei un metro e cinquanta ha fatto capire tutto”.
“Appena ha detto sei un metro, ho detto: ecco qua questo vuole fare lo scemo, a me è quello che mi fotte.”
Dialoghi dai quali emerge il dettaglio che fin da subito ha messo in allarme il 17enne, facendogli temere di essere facilmente identificabile: la sua bassa statura.
Ad onor del vero, in seguito alla diffusione delle immagini della tentata rapina culminata nel grave ferimento della vittima, diversi abitanti del Conocal avevano facilmente riconosciuto il 17enne. La statura, la corporatura esile, la gestualità, i movimenti. Era evidente che per gli inquirenti sarebbe stato altrettanto semplice risalire all’identità del rapinatore che ha punito con due spari il 32enne, reo di non essersi piegato alla sua volontà consegnandogli lo scooter, malgrado lo minacciasse con una pistola.
Quando uno dei presunti complici ritorna in quell’abitazione, dopo essere stato interrogato in Questura, l’unico rammarico manifestato dal 17enne circa il corso degli eventi che quest’oggi lo hanno portato a finire in carcere è quello di non aver notato le telecamere del distributore di carburante: “Quello dovevo vedere, là ci sono le telecamere”.
“Me ne devo andare da qua dentro, non devo dormire più qua”, afferma il 17enne, ormai sicuro che i poliziotti lo abbiano in pugno.
Mentre l’amico gli racconta l’esito dell’interrogatorio e gli spiega che i poliziotti gli hanno mostrato il video della rapina, il 17enne compie una rapida ricerca su internet e paradossalmente solo allora si rende conto della risonanza mediatica sortita da quelle immagini: “È uscito anche sui giornali. Io ora sto vedendo, guarda dov’è uscito questo video, su Rai2”.
Il 17enne ammette la sua responsabilità di colpa in maniera inequivocabile nel corso di una conversazione telefonica con la madre: “mamma, svegliatevi dal sonno, lo sanno che sono io, lo sanno che sono io, svegliatevi dal sonno, lo sanno che sono io”.