Sbaglia chi crede che le donne di camorra ricoprano un ruolo secondario, in termini di temibilità ed autorità. In realtà, le lady-camorra sono sempre state in grado di incutere perfino maggior timore, in primis agli uomini e “la vedova nera della camorra” napoletana ne è la dimostrazione vivente.
Anna Mazza, soprannominata per l’appunto «vedova nera della camorra» o anche “a signor’”, dopo la morte del marito Gennaro Moccia, ucciso negli anni settanta, ereditò le redini del clan e ne estese l’egemonia ben oltre i confini della Campania.
Anna Mazza è la prima donna a essere stata condannata per reati d’associazione mafiosa in Italia, oltre che un esempio significativo di “donna manager” nella gestione del clan. Reggente del clan Moccia di Afragola fin dagli anni Settanta, fa del racket una delle sue prime fonti di guadagno. La Mazza si è dimostrata in grado di ramificare il suo potere ovunque ne fiutasse le condizioni propizie, partendo dal suo comune di origine, Afragola, dove per la sua influenza si dovette arrivare anche a commissariare il comune; fino a Treviso, dove negli anni Novanta prese contatti con la mafia del Brenta.
Nell’aprile del 1976, il boss di camorra Gennaro Moccia viene trucidato in un agguato dai killer dei clan rivali Magliulo e Giugliano.
Da quel momento comincia la storia criminale di Anna Mazza che, all’età di 39 anni, eredita dal marito il comando di uno dei clan più potenti dell’intera Campania, egemone nei Comuni a nord-est di Napoli, in particolare Afragola, Arzano, Caivano, Casoria e zone limitrofe.
Soprannominata per questo motivo la “Vedova nera della camorra”, secondo gli inquirenti è lei a vendicare la morte del marito, commissionando al figlio Antonio, all’epoca tredicenne, l’omicidio di Antonio Giugliano nel cortile di Castel Capuano, ex sede del Tribunale di Napoli.
La donna viene arrestata in quanto mandante dell’agguato, ma prosciolta in istruttoria.
Ana Mazza è un boss che non si limita alle pratiche di “ordinaria amministrazione”, ma fa in modo che il clan Moccia si sviluppi ulteriormente trovando nuovi settori in cui investire. Sfruttando le sue grandi capacità imprenditoriali e il suo indiscutibile carisma, per più di vent’anni diventa la mente del clan attivo soprattutto nei campi dell’edilizia pubblica, delle estorsioni e del traffico di droga.
“A’ Signor’” capisce subito che per fare affari miliardari bisogna sparare il minimo indispensabile, perché il sangue e i colpi di pistola attirano polizia e carabinieri, a discapito del business criminale.
L’imperativo del clan è fare soldi e Anna Mazza, prima di altri, comprende la necessità di intrecciare rapporti con le Istituzioni, tant’è vero che il 20 aprile del 1999 il Comune di Afragola viene sciolto per infiltrazioni camorristiche.
Il suo è un vero e proprio matriarcato con tanto di scorta armata composta da sole donne. Una sua protetta, Immacolata Capone, con il suo benestare riesce a farsi strada e a risollevare le sorti del clan nel campo dell’edilizia grazie alla ditta “Motrer”, una delle imprese più importanti dell’intero Meridione nel settore del Movimento terra. Nel 2004 la Capone viene uccisa nel centro di Napoli, raggiunta da un colpo di pistola alla testa: un’autentica esecuzione, di chiara matrice camorristica.
Nel 1987, nell’ambito di un’operazione coordinata dalle sezioni della Criminalpol di Lazio e Campania, viene arrestata insieme alla figlia ventiseienne Teresa con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Nel 1993, Anna Mazza viene nuovamente condannata al soggiorno obbligato a Codognè in provincia di Treviso, non ha nessuna intenzione di assecondare le decisioni della magistratura e telefona a Mario Gardenal, sindaco democristiano del paesino veneto, per chiedergli di montare un protesta ad hoc.
A sole ventiquattro ore dal suo arrivo, il Comune viene tappezzato di striscioni e manifesti recanti la scritta: “Il Nord non ha bisogno della mafia“. I leghisti organizzano una raccolta firme per mandarla via, 1500 cittadini scendono in piazza per manifestare, incitati da un imprenditore del luogo.
Nel frattempo la Mazza fa di tutto per attirare l’attenzione: gira in paese a bordo di auto di grossa cilindrata, indossando abiti vistosi e gioielli, rilascia interviste in cui si lamenta dell’umidità e dei pasti scadenti. Non contenta, denuncia il sindaco per omissione di atti di ufficio, perché pretende il pagamento dell’affitto prima di assegnarle un alloggio di 160 metri quadri. Il primo cittadino viene duramente attaccato: delle bottiglie molotov vengono lanciate contro la sua abitazione, reo di non essersi opposto al soggiorno della donna in paese.
Anna Mazza scrive anche al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e al Ministro della Giustizia Giovanni Battista Conso, denunciando di essere gravemente malata e di patire offese di ogni genere. La donna spiega loro che la sua dignità di donna e madre viene quotidianamente calpestata, e non si sente sicura poiché le Istituzioni hanno completamente disatteso la legge che prevede la difesa della sua persona.
Camera e Senato, in tempi record, modificano la normativa sul soggiorno obbligato: entra in vigore la Legge 256 che dispone l’esecuzione della misura di prevenzione nel luogo di dimora abituale del condannato. Anna Mazza vince la sua battaglia e poco dopo, sotto scorta, torna nella sua Afragola.
Come se non bastasse, approfittando del soggiorno forzato nel Trevigiano, stringe rapporti con la mafia del Brenta per rafforzare la sua rete criminale.
Estremamente protettiva con i figli, quando vengono arrestati a seguito delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pasquale Galasso, la donna organizza una campagna per chiedere l’applicazione della legge sulla dissociazione dei terroristi anche ai detenuti per camorra, in maniera tale da ottenere sconti di pena senza la necessità di pentirsi. Stavolta le cose non vanno come vorrebbe, ma continua a combattere come una leonessa rivolgendosi alle più alte cariche dello Stato.
Nel 1999 viene arrestata nell’ambito di un’inchiesta che vede coinvolti due ispettori e due dirigenti del Commissariato di Afragola, nonché tre dipendenti del Comune della medesima città, accusati di aver favorito Anna Mazza, che avrebbe potuto spostarsi agevolmente sul territorio grazie a documenti falsi e ad atti di polizia riportanti dati falsi.
L’indagine del pubblico ministero Maria Antonietta Troncone permette di evidenziare che la Mazza utilizzava, da tempo e sistematicamente, documenti di identità che recano una falsa data di nascita, in maniera tale da risultare senza precedenti penali in caso di controlli da parte delle forze dell’ordine. Tutto ciò, secondo gli inquirenti, testimonia l’intelligenza criminale e le grandi capacità della donna-boss dirette ad inquinare le Istituzioni, mediante un comportamento di carattere collusivo.