Aveva 20 anni, Alessandro Malapena detto cipolla, quando il 27 agosto del 2013 fu freddato in strada dai sicari del clan rivale.
Teatro dell’agguato, viale Margherita, arteria cruciale del quartiere Ponticelli.
Sullo sfondo, un’alacre faida di camorra, che si combatte da mesi e a suon di delitti efferati. Sono gli anni in cui, sul versante camorristico, il pentimento dei fratelli Sarno ha generato un profondo vuoto di potere e due fazioni, in particolare, mirano ad imporre la propria supremazia.
Una guerra che si combatte anche a suon di tatuaggi e tanto basta a comprendere perchè le nuove leve della camorra siano riuscite facilmente a far breccia nei cuori dei giovani che vivono ai margini di una periferia isolata e desolata come Ponticelli.
Su un versante, i D’Amico del Rione Conocal, i cosiddetti “fraulella”, i fratelli Antonio, Giuseppe e Giacomo, affiancati dai cognati e dagli altri affiliati al clan Parrella-Ercolani; sull’altra sponda, i De Micco, i “Bodo”, un clan nato dal nulla, ma capace di guadagnare credibilità e terreno in pochissimo tempo, forte dell’appoggio di un nutrito esercito di soldati, fortemente affascianti dalla tempra e dal carisma di Marco De Micco, leader e fondatore del clan. Un esercito costituito da giovani come Alessandro Malapena, uno dei pusher più quotati del clan dei “Bodo” e che a dispetto dei suoi 20 anni era una figura emergente.
Il 24 agosto, era già rimasto ferito al polpaccio da un colpo di pistola. Alla polizia riferì di essere stato vittima di un tentativo di rapina dello scooter, mentre percorreva via Argine. Tre giorni dopo, nella tarda serata del 27 agosto, fu freddato con 10 colpi di calibro 7,65 mentre stava percorrendo a piedi viale Margherita, nei pressi di una telecamera fissa che immortala l’agguato.
Soccorso e trasportato a Villa Betania, era già morto quando arrivò al pronto soccorso.
Tre elementi cruciali hanno consentito ai poliziotti del commissariato di Ponticelli di chiudere rapidamente il cerchio delle indagini: l’identificazione dei presunti responsabili attraverso le immagini sfocate della telecamera di viale Margherita, il pentimento di Giovanni Favarolo, affiliato al clan D’Amico, e a seguire quello di Gaetano Lauria, anch’egli contiguo ai “fraulella”.
Giovanni Favarolo si era avvicinato ai “Fraulella” dopo essere stato minacciato da alcuni esponenti del clan De Micco.
“Stai con noi o no?”, gli avevano chiesto i “Bodo” a muso duro.
“Perché ricordati, chi non sta con noi è contro di noi”.
Il 1° ottobre 2013 Giovanni Favarolo, alias “Giuan ’o boss”, nuova leva del clan D’Amico di Ponticelli, si accusa dell’omicidio Malapena e tira in ballo Giuseppe D’Amico, Gaetano Lauria e il giovane Vincenzo Aprea, minorenne all’epoca dei fatti, ma per quest’ultimo il Gip respinge l’ordinanza di custodia cautelare.
Le dichiarazioni rese da Giovanni Favarolo, detto “Giuan ’o boss”, chiamato così perché fin da piccolo aveva un atteggiamento da duro, sono state ritenute molto utili dai pm della Dda nel concorrere a far luce sull’omicidio Malapena: «Il giorno dell’omicidio ci siamo incontrati a casa di Nunzia D’Amico, io, “Peppino fraulella” che sarebbe Giuseppe D’Amico, Gaetano Lauria e “Pisellino” di cognome Aprea, figlio di Gennaro Aprea, Salvatore Ercolani e Giacomo D’Amico. Ci vedemmo per decidere cosa fare nei confronti di Gennaro Volpicelli, Salvio “Bodo” che sarebbe Salvatore De Micco, Enea De Luca, Omar di cui non ricordo il cognome, il figlio del “Mio-babbo”, Roberto Boccardi e “Cipolla”, Alessandro Malapena. Il loro gruppo infatti, voleva farci chiudere le piazze di spaccio al Conocal e le bancarelle di sigarette, e ci voleva ammazzare. Nel corso della riunione decidemmo di vendicarci. Quella sera siamo scesi io, D’Amico, Lauria e Aprea. Siamo scesi con l’idea di ammazzare qualcuno. Quando stavamo sopra si parlava di fare qualcosa contro questo clan, di prendere provvedimenti, di ammazzare. Era una cosa precisa quella che si diceva. Io guidavo lo scooter sul quale viaggiava D’Amico. Quando arrivammo davanti a quei ragazzini, io rallentai, D’Amico era alzato sui pedalini. Con la mano sinistra si appoggiava alla spalla e con la mano destra sparava. Ha mirato a sinistra, perchè i ragazzi stavano alla nostra sinistra, e ha sparato. Ma non sapevamo se avevamo ucciso qualcuno. Solo verso l’una di notte un mio amico mi disse che era morto Malapena.»
L’omicidio del 20enne fu la replica dei D’Amico al duplice omicidio di altri due giovani, maturato per mano dei killer del clan rivale: il 20enne Gennaro Castaldi e il 19enne Antonio Minichini, figlio del boss Ciro Minichini e della lady-camorra del Lotto O Anna De Luca Bossa.
Attualmente, a Ponticelli, si respira un clima analogo a quello che aleggiava nel corso dell’estate in cui “cipolla” fu giustiziato in viale Margherita.
Lo scorso 2 luglio, lungo quella stessa strada, la raffica di spari esplosa da un commando composto da un minorenne e da altri tre giovani di età compresa tra i 20 e i 23 anni, ha ufficializzato l’incipit dell’ennesima faida. Volevano “stanare” un affiliato al clan rivale e sono entrati in azione nei pressi di un bar, in pieno giorno, sparando per 50 metri, tra le tante persone presenti in strada. Il commando era capeggiato da Emmanuel De Luca Bossa, il figlio minore del boss Tonino ‘o sicco e cugino del defunto Antonio Minichini. Pochi mesi prima, un altro suo cugino è stato barbaramente trucidato da un killer solitario, sotto gli occhi della compagna incinta: Carmine D’Onofrio, figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, la cui vita è stata gettata in pasto alle logiche della camorra all’età di 23 anni.
Per quell’omicidio, altri giovani sono stati tratti in arresto.
Prelevati in bassi, poco soleggiati ed angusti. Appartamenti di una manciata di metri quadrati che raccontano di una vita tutt’altro che agiata e sfarzosa, confacente ad un malavitoso. Molti di quei ragazzi, percepiscono uno stipendio settimanale di poche centinaia di euro, seppure le loro gesta concorrano a rifocillare le casse dal clan e a garantire ai boss un tenore di vita ben più lussurioso. A quei ragazzi basta un giro a bordo di un’auto costosa o una bevuta in discoteca. E soprattutto potersi vantare di “essere qualcuno” rimarcando, soprattutto sui social, l’appartenenza ad un clan di camorra. Questo il valore che quei ragazzi attribuiscono alle loro vite.
Moti di quei giovani sono ancora viva, proprio perchè lo Stato li ha messi in salvo, arrestandoli.
Nicola Aulisio, rampollo del clan Casella, è finito in carcere con l’accusa di tentato omicidio all’età di 19 anni.
Le reclute del clan De Martino, soprannominato “XX”, finite dietro le sbarre per aver compiuto efferate azioni camorristiche hanno 24, 25 anni. A Giulio Fiorentino è andata peggio: è morto ucciso a 28 anni. Un clan interamente costituito da giovanissimi, chiamati a raccogliere in fretta e furia l’eredità dei De Micco, all’indomani del blitz che decapitò la cosca. Pecore mandate al macello con fierezza perchè, per quei ragazzi, marcare la scena camorristica del loro quartiere per portare a compimento una missione tanto ardua rappresentava motivo di vanto ed orgoglio.
Un tunnel senza via d’uscita che seguita a sortire un inspiegabile fascino agli occhi dei ragazzi “addestrati” nei rioni in balia della camorra, sotto la sagace guida di un boss da rispettare ed idolatrare. Una lezione dalla quale, quei ragazzi, non sembrano disposti a trarre l’inequivocabile insegnamento. Malgrado ciascuno di loro abbia già pianto la morte violenta di uno o più amici per mano di quella stessa logica malavitosa dalla quale seguitano a lasciarsi ispirare.