Giuseppe Aldo Felice Alfano detto Beppe è un giornalista nato, vissuto e morto a Barcellona Pozzo di Giotto, come più popoloso della provincia di Messina.
Beppe è un “giornalista scomodo”, la sua attività è rivolta soprattutto verso uomini d’affari, mafiosi latitanti, politici e amministratori locali e massoneria.
La sera dell’8 gennaio 1993, poco prima delle 22,30 la mafia ha messo fine alle sue inchieste servendosi di tre spari.
Muore così Beppe Alfano all’età di 48 anni, a bordo della sua Renault rossa in via Marconi, strada provinciale di Barcellona Pozzo di Gotto, a due minuti dal centro storico.
È la prima vittima di mafia del 1993, che allunga la catena di morte dell’anno precedente, segnato dalle stragi di Capaci e via DAmelio. Appassionato di politica e giornalismo, fautore inflessibile della legalità e del rispetto per le regole, Beppe predilige la dimensione investigativa del cronista di strada. Beppe fu in grado di riversare le delusioni maturate in seguito alla sua candidatura alle elezioni comunali, per una lista civica sul piano giornalistico, nella lotta all’affarismo occulto e alla corruzione, imperanti in quegli anni.
Ben presto Beppe si accorge di essere visto come un personaggio scomodo, uno che dà fastidio, tutto quello che accade in quella sommessa realtà siciliana passa attraverso la sua penna e in molti casi si profila per mezzo della propria spiccata “capacità intuitiva“, che lo porta a precorrere eventi e situazioni. Le stesse forze dell’ordine considerano i suoi articoli una valida fonte d’indagine. Del malaffare strisciante che rende incerti i confini tra mafia, politica ed economia, Beppe dimostra di conoscere molto, troppo per alcuni personaggi che a un certo punto gli fanno capire che deve fermarsi.
Dall’altra parte però c’è un uomo che non si lascia intimidire, tant’è che arriva a rivelare alla moglie e alle due figlie di essere al corrente della sua imminente fine. Il disegno criminoso si consuma un venerdì notte. Rincasando con la moglie, davanti al portone d’ingresso nota qualcosa di strano e, raccomandando alla donna di chiudersi in casa, si mette alla guida della Renault rossa. Pochi metri dopo, lungo via Marconi, viene freddato da tre colpi di pistola al petto, alla testa e in bocca. La firma di cosa nostra nelle modalità di esecuzione appare più che evidente. Eppure, grazie a una sotterranea strategia di depistaggio e di diffamazione della vittima, le indagini procedono inizialmente in altre direzioni. Lo stesso iter processuale non riesce a fare totale chiarezza sulla vicenda, fermandosi alla condanna dell’esecutore materiale Antonino Merlino e del mandante Giuseppe Gullotti. Anni dopo, le rivelazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, legato alla cosca di Nitto Santapaola e implicato nell’omicidio di un altro giornalista, Giuseppe Fava (ucciso nel 1984), offrono un quadro diverso della verità.
Secondo quest’ultimo, Alfano sarebbe stato ucciso per aver scoperto il giro di riciclaggio di denaro sporco, che si nascondeva dietro il commercio degli agrumi e al quale erano legati gli interessi del boss Nitto Santapaola e quelli di insospettabili imprenditori legati alla massoneria. Nel frattempo, seppur con colpevole ritardo, la figura di Beppe Alfano esce dall’anonima dimensione locale e balza all’attenzione dei media nazionali e dell’opinione pubblica. Si scopre che è morto da precario e solo dopo la morte gli viene assegnato il tesserino di giornalista. Per merito della figlia Sonia Alfano, impegnata in politica e nel sociale per i diritti dei familiari delle vittime della mafia, la vicenda giudiziaria sulla morte del padre viene riaperta e nel 2014 offre nuovi scenari con le rivelazioni del pentito Carmelo D’Amico.