Ponticelli, 11 novembre 1989, ore 18,30. Un sabato sera qualunque tramutatosi repentinamente in un giorno tragico, capace di scrivere una delle pagine più turpi della storia tinta di nero, quella che narra morti violente, efferate, brutali, tragiche, agghiaccianti. Inumane.
Un sabato sera in grado di segnare per sempre e in maniera fortemente probante la coscienza sociale del quartiere, di un quartiere “difficile”, emblematico, complesso, tormentato da innumerevoli, frammisti e contrastanti stati d’animo.
Come di consueto, tantissime persone passeggiano sul corso di Ponticelli. C’è la Casa del popolo che richiama sempre molta gente. Ci sono i bar, Luisa e Sayonara, sempre affollati. Sul lato opposto una piazzola con aiuole e fiori e bambini che giocano. Altri si trattengono su una pista di pattinaggio.
Una pioggia di proiettili, urla, orrore e rivoli di sangue lungo i marciapiedi. Cinque persone tramortite al suolo, una gravemente ferita, e un’altra colpita di striscio. Un agguato di camorra dissemina orrore, terrore e morte in uno stralcio di ordinaria vita cittadina. Prima alcuni spari, poi una pioggia di colpi. I killer hanno agito in mezzo alla folla usando mitragliette, pistole e fucili a canne mozze. I cadaveri sono rimasti per terra molto tempo: sparsi a poca distanza l’uno dall’ altro per oltre sessanta metri. Sulla strada in tanti che gridavano e invocavano aiuto.
Droga, appalti, lotto clandestino e racket delle estorsioni: queste le motivazioni alla base di quella strage, opera di un commando omicida formato da sette-otto killer giunto all’improvviso in corso Ponticelli. E’ uno squadrone della morte che si è servito di tre-quattro macchine. Vestiti con tute da meccanico, appena scendono si mettono sul viso dei passamontagna. Davanti al bar gelateria Luisa e al bar Sayonara spianano le armi. Per diversi minuti sparano all’impazzata dentro e fuori il locale. Il primo ad essere colpito e a cadere è il pregiudicato Antonio Borrelli, di ventisette anni. Quando lo raccolgono dà ancora qualche segno di vita. Muore mentre lo trasportano all’ ospedale Loreto Mare. Il padre è il gestore del Sayonara. Forse hanno sparato contro il negozio per colpire tutti e due, dicono gli inquirenti. Senza scampo le altre quattro persone investite dalla pioggia di proiettili. Difficile l’identificazione. Muoiono quasi all’ istante Mario Guarracino, 45 anni; Salvatore Benaglia soprannominato o Bill di 53; Gaetano Di Nocera, 52 anni cassintegrato dello stabilimento siderurgico Italsider di Bagnoli; Gaetano De Cicco, 38 anni, dipendente del Comune di Napoli: non è stato facile identificarlo in quanto aveva la faccia spappolata dai colpi ed era senza documenti. Almeno due degli assassinati erano semplici passanti. Persone qualunque.
Come te.
Due le persone ferite: Vincenzo Meo 35 anni, ricoverato in gravi condizioni all’ ospedale, e Antonio Cito di 38.
Terrificante lo scenario per i dirigenti della Squadra mobile che sono arrivati sul posto poco dopo. I corpi erano distanziati fra loro di pochi metri tra il circolo ricreativo Vico e la gelateria, dentro un fiume di sangue. Cominciano ad effettuare i rilievi mentre la gente continua a scappare terrorizzata. Ci vuole un po’ di tempo per ricostruire in maniera attendibile la dinamica della spedizione punitiva. Per terra più di sessanta bossoli.
Causa della guerra il controllo di un vasto ventaglio di attività illegali: la droga, gli appalti, il racket delle estorsioni, il lotto clandestino che è una fonte di denaro sporco. Nel bar Luisa vengono trovate numerose matrici di toto nero. Il Sayonara serviva di più, molto probabilmente, come luogo per lo spaccio degli stupefacenti. Una delle automobili usate per la micidiale spedizione viene trovata a pochi metri, dietro un grosso edificio: una Seat Ibiza che i killer hanno incendiato preferendo scappare a bordo di altre macchine.
Una strage figlia della guerra scatenata fra le bande dopo la scomparsa delle grandi organizzazioni criminali. I piccoli gruppi agiscono come schegge impazzite e non esitano ad affrontarsi con efferata spietatezza, senza esclusione di colpi, coinvolgendo nelle sparatorie anche chi si trova a passare. Durante lo scontro tra gli «alleati» clan Sarno ed Aprea e quello degli Andreotti, per il controllo degli affari illeciti sul territorio.
“Ma la morte, sotto le sembianze di killer ebbri di droga e assetati di sangue è in agguato. I sicari irrompono, armati di armi lunghe e corte. Cercano il figlio del proprietario della gelateria, cercano i suoi amici che si ritrovano abitualmente nel locale e nel bar vicino. Li cercano per ucciderli, senza pietà e mettendo in conto il sacrificio di altre vite”: con queste parole la gip commenta l’agguato.
Morti che per oltre un ventennio sono rimaste impunite, avvolte dalla spessa cortina di omertà. «Solo oggi – aggiunge il magistrato – siamo in condizione di leggere compiutamente quegli eventi, di inquadrarli nella loro genesi, di decriptarne gli effetti. Tutto questo è reso possibile dalle recenti scelte collaborative dei fratelli Sarno, intervenute, a pioggia, dall’estate del 2009 e che hanno, sostanzialmente, dissolto l’impero criminale che costoro erano riusciti a creare».
“Io e mio fratello – racconta il boss, oggi pentito, Ciro Sarno – ci andammo a posizionare su un lastrico solaio di un edificio del parco Vesuvio, da cui si dominava tutta la scena e l’intero rione. Le prime notizie che mi giunsero, portatemi da mio cugino Esposito Giuseppe “’o maccarone” erano drammatiche per due ordini di ragione, sia perché mi diceva che non era stato ucciso nessuno degli uomini dell’Andreotti sia perché mi aggiungeva erano state uccise persone innocenti. Solo successivamente si apprese che invece, era rimasto a terra, oltre a quattro vittime innocenti, anche Borrelli Antonio e colpito Vincenzo Meo, che morì dopo qualche giorno in ospedale. Le auto con i killer andarono via dopo l’azione recandosi a Barra dove c’era ad attenderli Gennaro Aprea. Durante il percorso gli autori della strage furono costretti ad abbandonare una delle macchine; l’altra invece venne dato alle fiamme nelle zone di Barra. Quando fece ritorno mio cugino Sarno Ciro era ancora sconvolto da ciò che era successo. Si era infatti reso conto che erano stati colpiti degli innocenti e che invece erano riusciti a scappare gli altri appartenenti al gruppo di Andreotti. Mi parlò dei fratelli Viscovo (uno dei quali, se non erro venne ferito) e di Vincenzo Avolio. Dopo un paio di giorni, nei quali io e mio fratello Giuseppe ci allontanammo dal rione, nell’incontrarmi con De Luca Bossa Umberto pretesi da lui spiegazioni su come potesse essere successa quell’incredibile strage. Egli si giustificò dicendo che il suo obiettivo, Borrelli Antonio, era riuscito a colpirlo, inseguendolo fino a dentro la gelateria, per cui non era riuscito a controllare e a dirigere l’azione degli altri, che avevano sparato all’impazzata.”